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di Redazione Orbetech

Un nuovo orizzonte del lavoro (prima parte)

Redazione Orbetech

20 ottobre 2021

Un nuovo orizzonte del lavoro (prima parte)

Il mondo del lavoro sta cambiando e siamo sempre più pervasi da intelligenze artificiali che lavorano accanto a noi e per noi. Abbiamo imboccato la strada del perturbante.

Articolo di Nicola Zamperini

«Il modo in cui lavoriamo sta cambiando», comincia così, con una frase di improvvida e banale leggerezza, un post nel blog aziendale che forse ricorderemo come il primo vero passo nel metaverso, compiuto da Facebook.

Un piccolo passo ambizioso per la società di Mark Zuckerberg, e forse uno piuttosto impegnativo e inedito per l’umanità. «Senza i giusti strumenti di connessione, il lavoro a distanza presenta ancora molte sfide. Lavorare senza colleghi intorno a te può farti sentire isolato a volte, e il brainstorming con altre persone non è lo stesso se non sei nella stessa stanza», ancora dal blog di Facebook.

Tutta l’analisi compiuta in questi mesi, dai primi lockdown a oggi, sul lavoro da remoto è messa in discussione da un nuovo prodotto di realtà virtuale sociale (cd. social VR product), sviluppato da Facebook, che si chiama Horizon Workrooms. Si tratta di un sistema, una sintesi di software e hardware, che mira appunto a trasformare un ossimoro che Mark Zuckerberg ha utilizzato fin dai primi giorni della pandemia, e cioè la parola videopresenza.

Come funziona Horizon Workrooms?

Horizon Workrooms consente a due o più persone, distanti chilometri, di immergersi in un ambiente virtuale: queste persone, rappresentate dai rispettivi avatar, conversano come se fossero l’una accanto all’altra, nello stesso luogo, nella stessa stanza di un ufficio. Un video mostra in anteprima il tipo di ambiente nel quale le persone si troveranno a lavorare, una cosa a metà tra Second Life e un qualsiasi gioco evoluto della Playstation: si vedono avatar seduti a un tavolo che discutono di lavoro.

Workrooms si inserisce all’interno di un progetto più ampio, Horizon, che rappresenta una specie di sintesi in realtà virtuale di Instagram e Facebook, mentre il nuovo prodotto, ha detto Mark Zuckerberg alla CBS, è «solo una parte di questa corsa per dare alle persone più libertà di vivere dove vogliono». Il dove è un dove digitale e fisico allo stesso tempo, non dimentichiamolo, ed è l’essenza del metaverso.

Per accedere a Workrooms servono gli Oculus Quest2, visori per la realtà virtuale e un paio di joystick, che consentono ai partecipanti di ricreare attività che farebbero in presenza, come, ad esempio, illustrare una presentazione, prendere appunti sul proprio computer. Nel blog di Oculus scrivono che questa tecnologia è progettata per migliorare la capacità «di collaborare, comunicare e connettersi in remoto, attraverso la potenza della realtà virtuale, che si tratti di riunirsi per scambiare idee o scrivere, lavorare su un documento, ascoltare gli aggiornamenti di un gruppo di lavoro», o più semplicemente per «avere conversazioni migliori che fluiscano in modo più naturale» nell’ecosistema digitale. Di nuovo il metaverso.

Una delle applicazioni chiave di Workrooms è il cosiddetto audio space, che permette di ascoltare le persone «in base a dove sono sedute, proprio come in una stanza reale, rendendo le conversazioni fluide». L’obiettivo, dicono da Facebook, è quello di ottenere una «presenza sociale convincente», qualunque cosa voglia significare questa affermazione, direi che l’azienda intende avvicinarsi al senso più profondo di “realtà virtuale” come componente del metaverso. Altra importante novità sta nel fatto che si possono utilizzare non solo i joystick (i cd. controller), ma anche le mani per muovere oggetti nello spazio virtuale, insomma qualcosa che ricorda il Tom Cruise di Minority Report di qualche anno fa, per chi se lo ricorda. La tecnologia è già funzionante, ovviamente in versione Beta, di prova, ma ci si può registrare e provarla.

La danza umanoide di Elon Musk

Nelle stesse ore in cui Facebook lanciava Horizon Workrooms, Elon Musk ha presentato il progetto di un robot umanoide facendo danzare accanto a sé un ballerino vestito da robot, su un palco allestito all’occorrenza. L’umano mascherato da umanoide, che evoca il prossimo Tesla Bot, è stato annunciato durante un evento chiamato AI Day, la giornata dell’intelligenza artificiale.

L’obiettivo è candidare Tesla come sede di lavoro ambita per i tecnici che lavorano sull’intelligenza artificiale. Nel blog aziendale, la società ha scritto che cerca «ingegneri meccanici, elettrici, dei controlli e del software che ci aiutino a sfruttare la nostra esperienza sull’intelligenza artificiale, oltre la nostra flotta di veicoli». Tesla è già una società AI driven, come amano dire nella Silicon Valley, e cioè un’azienda in cui l’intelligenza artificiale rappresenta il cardine attorno al quale ruotano diversi prodotti e servizi. Nel corso della presentazione Musk ha spiegato che il robot umanoide «sarà buono ovviamente, e vivrà in un mondo fatto per gli umani, eliminando compiti pericolosi, ripetitivi e noiosi».

Alcuni interrogativi

Una domanda: perché Elon Musk ha sentito il bisogno di precisare che il robot «sarà buono»? Esiste forse un’alternativa alla prima legge della robotica di Asimov? Al netto delle intenzioni, va ricordato quanto Elon Musk talvolta si lanci in previsioni che poi vengono smentite: aveva preventivato, per la fine del 2020, 1 milione di robotaxi di cui non v’è traccia. Anche questa dimostrazione sembra più una roba da festival di cosplay, che non un’anticipazione rispetto all’aspetto dei robot con i quali avremo a che fare, e con i quali abbiamo già a che fare. Però non va sottovalutata la portata simbolica del lavoro di Musk, ed è la ragione per cui ne parliamo qui.

Nel caso di Facebook molte critiche si sono appuntate sull’aspetto di Workrooms: sembra Second Life o la versione impiegatizia di Fortnite, hanno detto in molti, dileggiando la presentazione di Zuckerberg. Ritengo che non sia mai opportuno prendere poco sul serio quanto fa il fondatore di Facebook. Al contrario penso che l’unico vero ostacolo allo spostamento dei nostri uffici nel suo modello realtà virtuale non sia l’aspetto da videogame, che nel giro di pochi mesi o pochi anni cambierà, e sarà ridisegnato sui nostri uffici, così come i nostri avatar sembreranno nostri ologrammi; penso che l’unico attrito derivi dal fatto che gli Oculus Quest2, e i rispettivi controller, siano ancora troppo ingombranti. Generano molto attrito, per utilizzare una parola cara alle techno-corporation della California. Non appena gli occhiali saranno più leggeri e le cuffie si trasformeranno in auricolari pressoché invisibili, e non appena basterà muovere le mani invece di joystick, Workrooms (o qualcosa di simile) diventerà uno dei luoghi di lavoro più popolati al mondo.

«Il modo in cui lavoriamo sta cambiando»

Le due presentazioni hanno un tratto in comune, espresso con improvvida e banale leggerezza, che non significa assenza di consapevolezza, dalle parole di Facebook: «il modo in cui lavoriamo sta cambiando». Abbiamo visto un’anticipazione dei connotati radicalmente differenti del lavoro di domani, non solo rispetto ai luoghi in cui lo portiamo a termine (Horizon Workrooms), ma anche rispetto alle categorie di persone e di non-persone che lo svolgeranno. Ci ricordano che abbiamo il dovere di cominciare a riflettere sulle mutazioni del lavoro, che tra pochi anni non somiglierà più, per milioni di persone, alle mansioni e al modo in cui le svolgevano prima.

I robot già oggi sono largamente impiegati in molti ambiti industriali, ma la familiarità che Musk ha inteso trasmettere con il balletto di un uomo vestito da umanoide, indica l’elemento perturbante, per dirla con Freud, di tutta questa vicenda. Una familiarità che inquieta, non tanto perché i robot con cui abbiamo a che fare non somiglieranno per anni ad alcun essere umano, ma perché i robot sembrano terribilmente inevitabili, vicini e lontanissimi, uno spaventoso che in noi risuona prossimo. Sappiamo, dimenticandolo, che l’intelligenza artificiale (che utilizzo come sinonimo di robot) è già presente nelle nostre vite, in molti aspetti visibili e nascosti, e già abbiamo a che fare con essa in tanti ambiti del nostro lavoro e della nostra vita.

Indipendentemente dall’aspetto,i robot sono accanto a noi, lavorano e lavoreranno sempre di più. Le presentazioni di Facebook e Tesla sono i primi tasselli della costruzione di un luogo lavoro in cui l’incorporeità è un dato di partenza, tanto per gli umani distanti nei corpi, quanto ovviamente per i robot, i quali possiedono un corpo meccanico e un’intelligenza artificiale; in cui la prossimità tra le persone è solo digitale, perché non si abita lo stesso ambiente, e l’automazione una premessa. Un’occupazione dai tratti immateriali, virtualizzata, a distanza, un’occupazione automatizzata in molti suoi aspetti.

La strada del perturbante

A proposito di macchine che lavorano accanto a noi: nelle videocall alcune tecnologie esistono già, e altre, in corso di sviluppo, percorrono con maggior forza la strada del perturbante. Google, ad esempio, sta sperimentando un sistema che consente all’intelligenza artificiale di “colmare” le lacune audio causate da cattive connessioni. Il sistema, addestrato ascoltando le voci di 100 individui in 48 lingue per apprendere le caratteristiche generali di una voce umana, utilizza questa libreria di dati vocali per ricostruire in maniera realistica brevi segmenti di conversazioni perdute. L’intelligenza artificiale produce suoni di sillabe e può riempire spazi vuoti fino a 120 millisecondi.

Nvidia, azienda leader nella produzione di schede video, ha sviluppato una tecnologia, si chiama Maxine, che riduce la quantità di dati che due computer si scambiano durante una videocall. Il funzionamento è apparentemente semplice: l’intelligenza artificiale prende la prima immagine del viso di chi chiama, ne fa una sintesi ed elimina qualsiasi video successivo. Di questa immagine estrae dei punti di riferimento specifici intorno agli occhi, al naso e alla bocca del mittente. Poi una “rete avversa generativa“, una rete neurale, ricostruisce le immagini successive, e dunque consente la videochiamata vera e propria, a partire da questi punti di riferimento. Sviluppa insomma una versione simulata del chiamante e trasmette questa versione all’altra persona. Come scrive il sito Nerdist, «l’intelligenza artificiale crea letteralmente un doppelgänger completo e (per lo più) indistinguibile» di una persona.

Il sosia è uno dei caratteri del perturbante per Freud: in questo caso osserviamo un nostro doppio, che dice ciò che noi stiamo dicendo, ma che il nostro interlocutore vede muoversi animato da un’altra intelligenza.

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