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di Redazione Orbetech

Epistemologia dei social network: per un nuovo dibattito sulle fake news

Redazione Orbetech

10 novembre 2021

Epistemologia dei social network: per un nuovo dibattito sulle fake news

Il dibattito sulle fake news e sul ruolo che i social hanno nella diffusione di queste è sterile, non fa che rimbalzare le accuse senza focalizzarsi sul punto centrale: la tecnologia ha cambiato il nostro modo di credere in qualcosa.

Articolo di Francesco Marino

Esiste, da anni ormai, un dibattito sulla disinformazione e le fake news nello spazio digitale. È un dibattito passato dalle elezioni americane del 2016 alla Brexit, fino alla campagna vaccinale contro COVID-19. Addirittura, qualche mese fa, il Presidente USA Joe Biden ha accusato Facebook di stare “uccidendo delle persone” con la disinformazione sui vaccini.

Si tratta di un dibattito sterile, in cui le accuse si rimbalzano da una parte all’altra. «I social network dovrebbero oscurare le fake news», dice qualcuno. «E le notizie false che provengono dai media?», risponde qualcun altro. Un rimpallo infinito di responsabilità, che non riesce a restituire un’immagine chiara ed esauriente del problema. La disinformazione è infatti una questione sfaccettata, per la quale non sono possibili spiegazioni semplici.

Certo, i social network, attraverso i loro algoritmi, favoriscono la diffusione delle notizie false. Allo stesso modo, la sfiducia delle persone nei confronti delle istituzioni genera un contesto in cui anche le informazioni più assurde possono trovare seguaci, follower, per dirla in un altro modo.

E se il punto fosse proprio il modo in cui intendiamo la verità?

Una cosa che raramente ci si chiede quando si parla di fake news riguarda i cambiamenti che la tecnologia – e di conseguenza un nuovo ecosistema informativo – ha generato nel modo in cui le persone formano la propria opinione. Detto in altri termini, il punto non è tanto quanto Facebook sia in grado di moderare i contenuti no-vax sulla propria piattaforma, ma come il digitale – e tutti i social network – hanno cambiato il nostro modo di credere in qualcosa, di approcciarci alla verità.

C’è un libro in verità abbastanza datato – è uscito nel 1985 -, ma recentemente ristampato da Luiss University Press, che fornisce una chiave di lettura piuttosto interessante. Si chiama «Divertirsi da morire» e l’ha scritto Neil Postman, uno dei punti di riferimento della cultura dei media di massa negli Stati Uniti.

C’è un punto nel ragionamento di Postman che mi pare particolarmente rilevante per la nostra situazione. È un passaggio che riguarda l’epistemologia, qui intesa come la capacità di arrivare alla verità, di comprendere quale sia la verità. Scrive Postman:

“[…] il concetto di verità è intimamente congiunto con le forme di espressione. La verità non è, e non è mai stata, disadorna. Deve mostrarsi in vesti appropriate oppure non è riconosciuta, il che vale a dire che la “verità” è una specie di pregiudizio culturale”.

In sostanza, secondo il sociologo americano, la verità in senso assoluto non può prescindere dalle forme di espressione della stessa. Potremmo dire, con un concetto già espresso da Walter J. Ong nel suo «Oralità e scrittura» che la comunicazione umana “non è mai a senso unico e che le reazioni previste ne modellano anche le forme e il contenuto”.

Un esempio può essere il famoso dibattito televisivo tra Nixon e Kennedy, il 26 settembre del 1960. Secondo le ricostruzioni, a garantire la vittoria a JFK fu più di tutto la sua capacità di padroneggiare un mezzo nuovo che, per la prima volta, si prestava a ospitare un evento così importante. In altre parole, gli americani trovarono Nixon meno convincente, meno affidabile, meno degno della loro fiducia. Al netto delle valutazioni politiche: era meno adatto al mezzo televisivo.

È così che potrebbe essere interpretata la lettura di Postman: la verità è una funzione diretta della capacità di padroneggiare un mezzo di comunicazione, il più importante del tempo. O ancora, quando un mezzo di comunicazione impone dei modi di vedere il mondo, delle strade per presentare la realtà, tendiamo a ritenere più credibili opinioni espresse in quelle modalità, percorrendo quelle strade. Continua Postman:

“La verità, come lo stesso tempo, è il prodotto di una conversazione che l’uomo ha con sé stesso riguardo alle tecniche di comunicazione e per il loro tramite”.

La storia recente delle fake news è una storia di epistemologia dei social network. Dopo il primo boom seguito all’articolo di Andrew Wakefield, le teorie no-vax trovarono davvero poco spazio sui media di massa. Internet interruppe questo silenzio forzato, spezzando la mediazione e offrendo agli antivaccinisti nuovi spazi di espressione.

I no-vax sfruttarono quelli che vengono chiamati data void, con un termine brillantemente coniato da Michael Golebiewski di Microsoft. In breve, negli anni 2000 le istituzioni non avevano ancora colto la necessità di un’informazione efficace online sul tema dei vaccini. E allora, se uno voleva recuperare informazioni in merito, si trovava davanti articoli scientifici, report difficili da consultare, vecchie presentazioni in Power Point. In questo contesto arrivarono i no-vax, con informazioni semplici da consultare, al passo con gli aggiornamenti tecnologici e con un contenuto tanto semplice quanto efficace: i vaccini fanno male.

Dai primi blog ai social network, la parabola è stata simile. Con un minimo comune denominatore: ogni sforzo degli anti-vax è stato fatto in totale consonanza con le regole degli spazi digitali. Le modalità, i formati, gli spazi di distribuzione: ogni cosa è stata pensata per un contesto a cui sempre più persone si rivolgevano per cercare informazioni. Nel tempo, le istituzioni sono intervenute e il dibattito, allo stato attuale delle cose, si tiene più o meno sullo stesso campo da gioco.

Per arrivare alle persone, le istituzioni non hanno solo dovuto utilizzare lo spazio digitale. Hanno piuttosto dovuto mutuarne i linguaggi, utilizzarne gli stilemi, adattare i messaggi al mezzo di comunicazione. Se è vero quanto dice Postman, infatti, la verità sui social network è una funzione diretta della capacità di adattarsi a determinati spazi. C’è un recente sondaggio di Buzzoole, una delle aziende leader nell’influencer marketing nel nostro Paese, che rivela come oltre 8 utenti italiani su 10 si fidino degli influencer quando parlano di temi sociali.

Del resto, chi di loro è più bravo a creare messaggi adatti ai social network?

Secondo Neil Postman, l’invenzione della stampa aveva generato, in particolare negli Stati Uniti del 18° e 19° secolo un’era dell’esposizione, razionale, figlia dell’illumunismo e delle caratteristiche del mezzo di comunicazione libro. Il telegrafo prima, la fotografia poi e infine la televisione hanno dato il via all’era dello spettacolo. Una cultura fagocitata dall’intrattenimento, in cui ogni messaggio deve, in un modo o nell’altro, divertire, generare emozioni.

L’era dello spettacolo è caratterizzata da tre demoni del discorso: l’irrilevanza, l’impotenza e l’incoerenza. Il primo e il secondo riguardano l’incapacità di agire per il singolo cittadino davanti a messaggi che gli arrivano in continuazione, da ogni parte del mondo, per i quali non ha un interesse diretto e nei confronti dei quali non può agire in concreto. Il terzo, estremamente importante, riguarda l’impossibilità di generare contesto, di offrire una cornice che permetta di dare un senso a quanto ascoltato o appreso.

La televisione non è più il media egemone – almeno non per tutti -. Internet, che mezzo di comunicazione non è ma ambiente, ha al suo interno una serie di media che portano all’estremo le caratteristiche dell’era dello spettacolo raccontata da Postman, in quella che potremmo definire un’era dell’iper-spettacolo. All’interno dei social network – che sono invece il mezzo di comunicazione egemone dello spazio digitale – riceviamo stimoli e messaggi in continuazione, da ogni parte del mondo. Messaggi veloci, senza contesto. Atomi di senso, che proviamo con fatica a ricostruire. Atomi di senso – e questa è una delle differenze con la televisione – governati da algoritmi che hanno l’obiettivo di massimizzare il nostro coinvolgimento.

Troppo spesso, negli ultimi anni, l’intero dibattito sulle fake news si è concentrato sulla necessità di censurare o moderare le informazioni false all’interno delle piattaforme digitali. Ma c’è molto di più. Combattere la disinformazione è un impegno che parte da una profonda comprensione del modo in cui le informazioni si diffondono sul web e delle conseguenze che i social network hanno nella formazione delle nostre opinioni, delle nostre scelte politiche, sociali, di consumo. È un processo che coinvolge la nostra capacità di ragionare della verità, a prescindere dal mezzo di comunicazione.

È, insomma, una sfida che non ha niente a che fare con l’eliminazione – o la censura - delle fake news dai social network, impresa titanica e virtualmente impossibile. Serve uno sforzo di analisi, di comprensione, di cultura digitale ed epistemologica, che ci restituisca nuove forme di verità per un mondo in continua evoluzione.

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