Fallimenti aziendali in crescita del 18% nel 2025: Lombardia, Lazio ed Emilia-Romagna le regioni con i numeri più alti. Ecco cosa accade a debiti, soci e dipendenti.
Quando un’impresa non riesce più a far fronte ai debiti, non si parla più di “fallimento”, ma di liquidazione giudiziale (D.lgs. n. 14/2019). È la procedura che segna la fine della società. Nel corso del 2025 le liquidazioni giudiziali in Italia sono aumentate del 18 % rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente un segnale chiaro della fragilità delle PMI in alcuni territori . Lombardia, Lazio ed Emilia‑Romagna si confermano le regioni con l’incidenza più alta.
Ma cosa accade, in concreto, dopo la dichiarazione di insolvenza? Chi paga i debiti rimasti? Che ne è dei lavoratori e dei fornitori in attesa di essere soddisfatti?
Fallimento d’impresa: cosa significa e quali effetti immediati produce
Nel linguaggio giuridico il termine fallimento è stato sostituito dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.lgs. n. 14/2019) con la nozione di liquidazione giudiziale. La differenza non è solo terminologica, si tratta di una procedura volta a liquidare il patrimonio del debitore insolvente sotto la supervisione del tribunale, garantendo la parità di trattamento tra i creditori e la tutela dei lavoratori.
La sentenza di apertura della liquidazione giudiziale produce effetti immediati:
“L’imprenditore non può più disporre liberamente dei propri beni, i pagamenti ai creditori vengono sospesi e ogni azione esecutiva individuale resta bloccata.”
Dall’apertura della liquidazione giudiziale, il curatore nominato dal tribunale redige l’inventario dei beni, gestisce l’attivo e coordina la fase successiva di accertamento dei crediti.
Gli effetti però non si limitano a questo. La legge prevede che il corso degli interessi sui debiti chirografari venga sospeso con l’apertura della liquidazione giudiziale art. 150 CCII, che i contratti pendenti possano essere sciolti o mantenuti solo se utili alla procedura, e che le azioni giudiziarie contro il debitore vengano sospese per confluire dinanzi al giudice delegato. Tutto ciò serve a garantire parità di trattamento tra i creditori e a impedire che qualcuno ottenga un vantaggio sugli altri.
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Chi risponde dei debiti dell’azienda fallita?
Una delle prime domande che si pongono soci, fornitori e dipendenti è: chi paga i debiti quando un’azienda fallisce?
L’art. 2740 c.c. stabilisce che:
“Ciascuno risponde delle proprie obbligazioni con tutto il proprio patrimonio, presente e futuro.”
Nel caso delle società di capitali, S.r.l. o S.p.A., tale principio si traduce nella responsabilità limitata, a pagare è solo la società con i suoi beni, mentre i soci non rischiano in linea di principio il proprio patrimonio personale. Ci sono però delle eccezioni. Gli amministratori possono essere chiamati a rispondere in proprio quando abbiano gestito la società in modo illecito o gravemente negligente (art. 2476 c.c.). Infatti, l’art. 2394 c.c. prevede che gli stessi amministratori rispondano personalmente se, con la loro mala gestio, hanno aggravato il dissesto riducendo le garanzie dei creditori. In tali ipotesi, i debiti non rimangono confinati alla società, ma possono “uscire” dal perimetro della responsabilità limitata e colpire gli amministratori.
Diversa è la situazione delle imprese individuali. Qui non esiste distinzione tra patrimonio dell’imprenditore e patrimonio dell’impresa: se la ditta fallisce, i creditori possono aggredire anche beni personali come immobili, conti correnti o veicoli intestati al titolare.
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Creditori e fornitori: come si recuperano i crediti in caso di fallimento
Lo strumento principale per recuperare il credito è la domanda di ammissione al passivo, prevista dall’art. 201 CCII. Si tratta di un’istanza che il creditore deve presentare al tribunale entro il termine fissato nella sentenza dichiarativa di fallimento. Alla domanda vanno allegati i documenti che provano il credito (fatture, contratti, estratti conto). L’organo che decide sull’ammissione è il giudice delegato, su proposta del curatore fallimentare.
L’ordine di soddisfazione dei crediti non è uguale per tutti:
- i crediti privilegiati, hanno la precedenza e vengono soddisfatti per primi. Per esempio, stipendi arretrati dei lavoratori, contributi previdenziali, imposte;
- crediti ipotecari e pignoratizi sono collegati a specifici beni della società (immobili, macchinari, titoli);
- crediti chirografari, cioè i crediti della gran parte dei fornitori, restano in fondo alla graduatoria e spesso ricevono solo una percentuale ridotta del dovuto.
Oltre al riparto ordinario, la legge mette a disposizione strumenti ulteriori.
“L’azione revocatoria fallimentare (artt. 166 ss. CCII), consente di far rientrare nell’attivo i beni o i pagamenti che l’imprenditore ha disposto poco prima della liquidazione giudiziale in danno dei creditori.”
In pratica, il curatore può chiedere al giudice di annullare operazioni sospette che hanno ridotto il patrimonio disponibile per la massa. Si pensi a un imprenditore che, nei mesi precedenti all’apertura della procedura, venda un capannone a un prezzo simbolico a una società riconducibile a un familiare, o che paghi integralmente un creditore “amico” lasciando scoperti tutti gli altri. In entrambi i casi, la revocatoria permette di riportare quel bene o quella somma all’interno della procedura, così da distribuire il ricavato in maniera equa tra tutti i creditori.
Inoltre, possono esserci azioni di responsabilità verso ex amministratori o sindaci. In questi casi, se accertata la responsabilità, il loro patrimonio personale può essere chiamato a risarcire i danni subiti dalla massa creditoria.
Dipendenti dell’azienda fallita: chi paga stipendi e TFR
Nel corso della liquidazione giudiziale, i rapporti di lavoro subiscono gli effetti della procedura concorsuale. I contratti non si estinguono in automatico ma restano sospesi finché il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, non decide se proseguire temporaneamente l’attività aziendale o avviare i licenziamenti collettivi.
“In questa fase il dipendente non lavora e non percepisce retribuzione, solo se il curatore dispone l’esercizio provvisorio, il rapporto riprende e matura la paga.”
Per i lavoratori il rischio non riguarda soltanto la perdita del posto, ma anche la mancata corresponsione delle ultime mensilità e del Trattamento di fine rapporto (TFR). A differenza dei fornitori, i dipendenti sono creditori privilegiati, ma le somme disponibili in cassa spesso non bastano a soddisfare tutte le spettanze. È per questo che interviene il Fondo di garanzia dell’INPS, che copre il TFR e le ultime tre mensilità, anche se l’attivo fallimentare è insufficiente.
Rapporto sospeso, messa in mora del curatore e accesso al Fondo INPS
Con l’apertura della liquidazione giudiziale i rapporti di lavoro restano sospesi per un periodo massimo di 4 mesi (art. 189 CCII). Entro questo termine il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, deve decidere se proseguire o recedere dal contratto. In caso di cessazione, al lavoratore spettano il TFR e le ultime mensilità, che entrano nei crediti privilegiati.
Quanto al recupero delle spettanze, la procedura davanti al Fondo INPS richiede passaggi precisi. Dopo l’esecutività dello stato passivo, il curatore trasmette per via telematica la dichiarazione (moduli SR52 o SR95) necessaria per “abbinare” la domanda presentata dal lavoratore. Solo da quel momento l’INPS provvede al pagamento, in media entro pochi mesi.
In concreto, il dipendente che non riceve stipendi da tre mesi e non ottiene il TFR può essere soddisfatto direttamente dal Fondo, senza attendere la chiusura della liquidazione giudiziale.
Va però chiarito che il Fondo non interviene in ogni scenario. Se l’azienda è stata ceduta prima del fallimento e il nuovo datore subentra nei rapporti, l’INPS può rifiutare il pagamento: in quel caso la tutela dipende direttamente dalla solidità della società subentrante.
Quanto dura un fallimento e cosa resta dell’azienda dopo la chiusura
La durata della liquidazione giudiziale non è uguale per tutte le imprese: molto dipende dalla dimensione dell’attivo da liquidare e dal numero dei creditori. In media, una procedura ordinaria si chiude in circa 2 anni, ma i tempi possono allungarsi fino a cinque o più in caso di patrimoni complessi o di contenziosi tra creditori. Il Codice della crisi (art. 209 bis CCII, introdotto dal correttivo 2024), stabilisce che la liquidazione debba chiudersi entro 5 anni dall’apertura, salvo proroga espressamente autorizzata dal tribunale.
“Una volta completata la fase di liquidazione, l’azienda fallita viene cancellata dal Registro delle imprese.”
Questo segna la fine giuridica della società: non esiste più come soggetto di diritto e non può avere ulteriori rapporti giuridici. Per i creditori, se non hanno recuperato integralmente il loro credito, il residuo diventa inesigibile.
Le conseguenze non riguardano solo la società ma anche chi la gestiva. Gli amministratori possono essere chiamati a rispondere personalmente se hanno violato i loro doveri, aggravando la crisi. Nei casi più gravi, la legge prevede anche profili penali: la bancarotta fraudolenta (artt. 216 ss. legge fallimentare, oggi trasfusi nel Codice della crisi) resta una delle ipotesi più rilevanti, punita con pene detentive.
Per i soci di una srl, invece, il fallimento segna normalmente la perdita del capitale conferito, senza ulteriori conseguenze patrimoniali personali, salvo garanzie prestate o ipotesi di abuso della responsabilità limitata.
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È possibile aprire una nuova attività dopo il fallimento?
Il fallimento non preclude in modo assoluto la possibilità di tornare a fare impresa. Bisogna distinguere se si tratta del fallimento di una società di capitali e quello personale. Nel primo caso, una volta cancellata la società dal Registro delle imprese, i soci non subiscono conseguenze dirette sul piano giuridico e possono avviare subito una nuova attività o costituire un’altra società, salvo che abbiano prestato garanzie personali o siano stati chiamati a rispondere per responsabilità gestorie.
Invece, se il fallimento riguarda l’imprenditore individuale o il socio illimitatamente responsabile, può esserci l’esdebitazione artt. 278 ss. CCII, cioè la liberazione dai debiti residui non soddisfatti. Il tribunale può concederla su richiesta del debitore solo dopo la chiusura della procedura e al ricorrere di condizioni precise: correttezza nella gestione, collaborazione con gli organi della procedura e assenza di condanne per bancarotta fraudolenta o altri reati concorsuali. In linea generale, l’esdebitazione può essere riconosciuta decorso un termine di 3 anni, ma la tempistica si allunga in presenza di precedenti penali.
Un ex imprenditore individuale potrebbe scegliere di rientrare sul mercato tramite una società di capitali, magari con il coinvolgimento di un familiare o di un socio di fiducia, in attesa della riabilitazione. È questa una soluzione che consente di ridurre l’esposizione personale e al tempo stesso di ricostruire un rapporto con le banche.
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