Guida completa alla liquidazione giudiziale nel 2025: differenze col fallimento, come funziona, chi può richiederla e cosa rischia l’imprenditore.
Dal 2022, la liquidazione giudiziale ha sostituito il vecchio “fallimento”. Ma dietro a questo cambio di nome, cosa è davvero cambiato per le imprese? Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) ha introdotto la nuova terminologia per superare lo stigma sociale legato a chi chiude i battenti. Tuttavia, il cuore della procedura resta lo stesso: chi arriva a questo punto deve gestire l’insolvenza, la liquidazione del patrimonio e la soddisfazione dei creditori.
Eppure, una novità c’è.
Con il CCII, l’attenzione si sposta sulla prevenzione, sulla possibilità di intercettare la crisi prima che diventi irreversibile. E questo, nel 2025, è cruciale: tra crediti incagliati, ritardi nei pagamenti e stretta sul credito bancario, le PMI sono sempre più esposte.
Capire quando si rischia la liquidazione giudiziale, come evitarla e cosa la distingue da una semplice crisi di liquidità non è più materia per addetti ai lavori: è una guida di sopravvivenza per chi fa impresa oggi.
Vediamo nel dettaglio come funziona.
Cos’è la liquidazione giudiziale e cosa significa per un’impresa
La liquidazione giudiziale è un percorso obbligato previsto dalla legge quando un’azienda non riesce più a far fronte ai propri debiti in modo stabile e tecnicamente entra in uno stato di insolvenza. Si tratta di una procedura prevista dal Codice della crisi d’impresa per gestire in modo ordinato la chiusura di un’attività ormai non più sostenibile.
In questi casi, il tribunale nomina un curatore incaricato di gestire ciò che resta dell’impresa e vendere i beni per rimborsare, per quanto possibile, i creditori. Da quel momento, l’imprenditore non ha più voce in capitolo nella gestione dell’azienda ed entrano in gioco figure diverse: il giudice, che apre la procedura, il curatore, che gestisce la liquidazione, i creditori, che attendono di essere risarciti.
Pertanto, la liquidazione giudiziale è una misura forzata, spesso richiesta dai creditori o avviata direttamente dal tribunale. Mentre la liquidazione volontaria viene scelta dallo stesso imprenditore quando decide di fermarsi in assenza di problemi gravi.
Liquidazione giudiziale e fallimento: quali sono le differenze?
Dal 15 luglio 2022, in Italia non si parla più di “fallimento” ma di liquidazione giudiziale. Un cambiamento che va oltre le parole: l’obiettivo è anche culturale. Il vecchio termine “fallimento” portava con sé un peso sociale forte, spesso vissuto come una colpa personale. Per questo motivo, molti imprenditori tendevano ad aspettare troppo prima di ammettere le difficoltà.
Oggi si preferisce un linguaggio più neutro e moderno, che guarda alla crisi d’impresa come a una fase difficile ma superabile, anche grazie a strumenti di tutela e ripartenza come l’esdebitazione, che può aiutare l’imprenditore a liberarsi dai debiti residui e ricominciare.
Dal punto di vista pratico, però, la procedura è molto simile a quella del vecchio fallimento: si mette ordine nei conti, si liquidano i beni e si cerca di rimborsare i creditori secondo regole precise.
Quando si apre una procedura di liquidazione giudiziale
La liquidazione giudiziale si apre quando un’impresa si trova in stato di insolvenza, ovvero non è più in grado di pagare regolarmente i propri debiti. Non si parla solo di momentanea difficoltà di liquidità, ma di una crisi strutturale che rende impossibile continuare l’attività.
Secondo il Codice della crisi d’impresa, possono essere sottoposti alla procedura tutti gli imprenditori commerciali, incluse le società di capitali e di persone, ma non solo: anche le cooperative e gli enti pubblici economici possono finire in liquidazione giudiziale.
Tuttavia, esiste una soglia dimensionale sotto la quale gli imprenditori sono esclusi dalla procedura. Sono considerati “piccoli imprenditori”, dunque non soggetti a liquidazione giudiziale, quelli che, nei tre esercizi precedenti, non hanno superato i seguenti limiti:
- 200.000 euro di attivo patrimoniale,
- 200.000 euro di ricavi lordi annui,
- 10 dipendenti.
Chi può richiederla? E come?
L’apertura della procedura può essere richiesta:
- dallo stesso imprenditore, che riconosce lo stato di insolvenza e si rivolge al tribunale;
- dai creditori, che temono di non essere più pagati;
- dal Pubblico Ministero, nei casi in cui emergano situazioni gravi o anomalie societarie.
Quando il tribunale riceve un’istanza di liquidazione giudiziale, prima di tutto verifica se ci sono davvero i presupposti per procedere. Se li ritiene fondati, emette una sentenza che dà ufficialmente il via alla procedura. Da quel momento, l’impresa non è più padrona di sé, perde il controllo operativo e si avvia verso una chiusura forzata.
Cosa succede dopo la sentenza di liquidazione giudiziale
Con la sentenza di apertura, l’azienda entra in una nuova fase: non è più un soggetto che produce, vende o offre servizi, ma un’entità in smantellamento. Il tribunale nomina subito due figure chiave: il giudice delegato, che supervisiona la procedura, e il curatore, che prende in mano la gestione dell’intero patrimonio aziendale.
Da qui in avanti, l’imprenditore viene sollevato da ogni incarico operativo: non può firmare contratti, non può vendere beni, né effettuare pagamenti. Ogni atto che riguarda il patrimonio deve passare dal curatore e, spesso, ottenere l’ok del giudice. Anche i contratti in essere, salvo alcune eccezioni, vengono sospesi o chiusi.
Questo serve a proteggere il patrimonio rimasto e garantire ai creditori che non venga intaccato o disperso.
Inoltre, la sentenza viene iscritta nel Registro delle imprese e diventa pubblica. Questo passaggio è importante, perché mette tutti (clienti, fornitori, partner) al corrente della nuova situazione dell’azienda.
Chiunque ne abbia interesse (a partire dallo stesso imprenditore) ha 30 giorni di tempo per presentare reclamo alla Corte d’Appello. Ma attenzione: il ricorso non blocca automaticamente la procedura. Solo se il giudice di secondo grado riconosce che i presupposti non c’erano, si può tornare indietro.
Come funziona la liquidazione giudiziale: fasi principali della procedura
Una volta aperta la procedura, il curatore, sempre sotto la guida del giudice delegato, comincia a ricostruire pezzo per pezzo la situazione dell’impresa: individua i beni da liquidare, verifica i crediti da saldare e stabilisce un ordine di priorità tra i creditori.
L’obiettivo? Raccogliere quanto più possibile dal patrimonio residuo e distribuirlo in modo equo. Non si tratta solo di vendere e incassare, ma anche di fare ordine, capire cosa è ancora recuperabile e seguire regole molto precise per non penalizzare nessuno.
Ecco le tre fasi principali:
Inventario, accertamento del passivo e stato passivo
La prima mossa spetta al curatore, che redige un inventario completo dei beni aziendali: immobili, crediti, merci, disponibilità liquide. Poi si passa all’accertamento del passivo, cioè l’elenco di chi vanta un credito verso l’impresa. Ogni richiesta viene esaminata e, se valida, inserita nello stato passivo, il documento che stabilisce chi deve essere pagato e quanto.
Ammissione al passivo e opposizione allo stato passivo
I creditori devono presentare domanda di ammissione entro i termini stabiliti dal tribunale, allegando la documentazione che prova il credito. Chi viene escluso può presentare opposizione, sempre entro limiti precisi, chiedendo la revisione del proprio caso.
Liquidazione e ripartizione dell’attivo
Dopo aver mappato debiti e patrimonio, il curatore avvia la vendita dei beni aziendali: immobili all’asta, cessioni di rami d’azienda, recupero crediti. Il ricavato viene poi distribuito tra i creditori, seguendo un ordine di priorità definito dalla legge: prima i privilegiati (come il Fisco o i lavoratori), poi gli altri.
Cosa comporta la liquidazione giudiziale per l’imprenditore
Quando un’impresa arriva alla liquidazione giudiziale, le conseguenze non si fermano all’aspetto economico. Per l’imprenditore coinvolto, l’impatto può essere molto più ampio: tocca la sfera personale, quella professionale e, in alcuni casi, può avere anche risvolti penali. Vediamo in concreto cosa significa affrontare questa procedura.
Decadenze e limitazioni
Una volta dichiarata la liquidazione giudiziale, l’imprenditore perde la possibilità di gestire la propria azienda e i propri beni. Non può più firmare contratti, vendere beni o prendere decisioni operative. In certi casi, può anche essere temporaneamente escluso da incarichi in altre aziende o società. Se poi emergono irregolarità nella gestione passata, si rischiano anche procedimenti penali o civili, ad esempio per bancarotta.
Effetti sul patrimonio e sulla vita personale
Quando a fallire non è una società ma una persona in carne e ossa – un artigiano, un libero professionista, un piccolo imprenditore – la faccenda si fa ancora più delicata. Perché in questi casi il patrimonio personale entra in gioco: casa, auto, conti correnti e qualsiasi altro bene possono essere usati per saldare i debiti. Ci sono alcune eccezioni previste dalla legge, certo, ma la regola generale è che tutto può finire nella cosiddetta “massa attiva” da liquidare.
E non si tratta solo di numeri: le conseguenze toccano anche la vita quotidiana e la reputazione professionale. Dopo una liquidazione giudiziale, ripartire è tutt’altro che semplice. Soprattutto se si prova a chiedere un finanziamento o si ha in mente di riaprire un’attività. Ma oggi, per fortuna, c’è una possibilità concreta per chi ha fatto del suo meglio ma non ce l’ha fatta: si chiama esdebitazione. E può essere davvero un nuovo inizio.
Cos’è l’esdebitazione nella liquidazione giudiziale
L’esdebitazione è un meccanismo pensato per chi, dopo la liquidazione giudiziale, si ritrova ancora con una montagna di debiti e nessuna via d’uscita. In parole semplici, consente di azzerare i debiti residui e ricominciare senza zavorre. È una misura pensata per l’imprenditore onesto ma sfortunato, che ha provato a far fronte alle difficoltà ma è rimasto schiacciato dagli eventi.
Si tratta di una novità introdotta dal Codice della crisi d’impresa, in vigore dal 2022, che ha cambiato profondamente l’approccio a queste situazioni. Oggi, anche chi non è riuscito a restituire nulla ai creditori può comunque accedere all’esdebitazione, a patto di aver agito in buona fede e senza comportamenti scorretti.
E c’è di più: non serve più aspettare la fine della procedura. Dopo tre anni dall’apertura della liquidazione, il tribunale può già decidere se concedere o meno il beneficio. Un passo avanti importante, che vuole evitare che una persona rimanga intrappolata per anni in un limbo economico senza sbocchi.
In sostanza, è un modo per guardare avanti, non solo indietro. Un’occasione vera per chi ha perso tutto ma non vuole restare fermo.
Liquidazione giudiziale e chiusura della società: cosa comporta?
Molti confondono la liquidazione giudiziale con una normale chiusura aziendale. Ma si tratta di due percorsi completamente diversi, sia per natura che per effetti.
Differenze tra liquidazione giudiziale e chiusura volontaria
Nel primo caso si parla di procedura coatta, decisa da un tribunale a fronte di uno stato di insolvenza. Nel secondo, invece, l’imprenditore sceglie volontariamente di sciogliere la società, spesso per motivi strategici o per cessata attività, quando non ci sono debiti in sospeso. Un’altra differenza sostanziale riguarda la presenza di un attivo residuo: nella chiusura volontaria può restare qualcosa da distribuire ai soci; nella liquidazione giudiziale, di solito, tutto va ai creditori.
Cosa succede alla società al termine della liquidazione?
Una volta conclusa la liquidazione giudiziale, la società viene cancellata dal Registro delle imprese e cessa di esistere. Per l’imprenditore, invece, inizia un nuovo percorso: può richiedere la riabilitazione, cioè il recupero della piena capacità giuridica e imprenditoriale, ma solo dopo aver rispettato specifici requisiti e tempistiche.
Domande frequenti
Quanto dura la liquidazione giudiziale in media?
La durata media va da 1 a 3 anni, ma può allungarsi in presenza di contenziosi, creditori numerosi o patrimoni complessi. La chiusura definitiva avviene solo dopo la liquidazione dell’attivo e il riparto ai creditori.
Cosa comporta la liquidazione giudiziale?
La procedura segna l’uscita di scena dell’imprenditore, che perde il controllo. Un curatore prende in mano la situazione, liquida i beni aziendali e prova a rimborsare i creditori. L’attività si ferma e, alla fine, l’impresa può essere cancellata dal Registro delle imprese.
Cosa succede se una società va in liquidazione giudiziale?
Si apre una fase di vendita forzata del patrimonio aziendale, gestita da un curatore nominato dal tribunale. Il ricavato viene usato per pagare i creditori secondo un ordine di priorità stabilito dalla legge. Alla fine, la società viene chiusa e cancellata.
Chi nomina il curatore nella liquidazione giudiziale?
Ci pensa il tribunale: nella stessa sentenza con cui apre la procedura, nomina anche il giudice delegato e il curatore, che avrà il compito di gestire tutto il processo.
Come si può impugnare la sentenza di liquidazione giudiziale?
Chi non è d’accordo ha 30 giorni di tempo per fare reclamo alla Corte d’Appello. Può farlo l’imprenditore, un creditore o chiunque sia coinvolto e ritenga che non ci fossero i presupposti per la liquidazione.
È possibile salvare l’azienda dopo l’apertura della liquidazione giudiziale?
A volte sì. Se ci sono buone prospettive, il giudice può autorizzare a tenere in vita l’attività per un po’. Oppure, si può tentare un concordato in corsa, ma serve l’ok dei creditori e del tribunale.
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