Riunione Fed 17-18 giugno, quale sarà il verdetto sui tassi di Jerome Powell? E qui si torna all’era dei tassi negativi?
Countdown alla quarta riunione del 2025 del FOMC, il braccio di politica monetaria della Fed, che prenderà il via domani, martedì 17 giugno, per concludersi dopodomani, mercoledì 18 giugno, con l’annuncio sui tassi di interesse USA.
La prima cosa che viene in mente di asserire è che quasi sicuramente, anche stavolta il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che non ha visto l’ombra di un taglio dei tassi da quando è tornato alla Casa Bianca, dovrà ingoiare il rospo.
Tassi Fed, dado tratto: fermi anche a giugno al range compreso tra il 4,25% e il 4,5%
Il dado, infatti, pare già tratto: la Fed i tassi non li taglierà neanche stavolta, confermandoli al range compreso tra il 4,25% e il 4,5%.
Ci si chiede quali saranno i nuovi insulti del presidente americano Trump contro il numero uno della Federal Reserve Jerome Powell, che è stato già oggetto di diversi epiteti, incluso quello più recente di “testa vuota”.
Sono i mercati e gli esperti a stimare un nulla di fatto, e anche da un po’ di settimane, con una probabilità che si avvicina alla certezza, pari a quasi il 100%. E molto probabilmente la Banca centrale americana rimarrà ferma anche nel meeting successivo di luglio, per decidere di agire soltanto nella riunione del FOMC di settembre.
Soltanto allora, infatti, le conseguenze dei dazi reciproci imposti dall’amministrazione di Donald Trump potrebbero essere di più facile individuazione.
Con le tariffe messe in pausa, fare la conta dei danni si conferma al momento una sorta di Mission Impossible per le banche centrali, e per la Fed in primis.
Due le questioni principali che la Fed deve considerare
In una situazione in cui il mercato del lavoro USA non sta lanciando nessun SOS, come ha dimostrato l’ultimo report occupazionale degli Stati Uniti (quello noto come Non Farm Payrolls), le questioni principali che la Fed deve considerare sono due.
Da un lato, i numeri relativi all’occupazione sono tali, al momento, da non far scattare alcun allarme importante su una possibile erosione dei fondamentali economici USA. In poche parole, le condizioni di salute dell’economia americana sono tali da non giustificare un intervento tempestivo da parte di Jerome Powell.
Dall’altro lato, l’inflazione continua a non convincere Jerome Powell e i suoi colleghi.
L’ultimo dato relativo all’indice dei prezzi al consumo CPI ha messo in evidenza, infatti, una inflazione headline salita del 2,4% su base annua, a un ritmo inferiore rispetto al +2,5% atteso, anche se alcuni economisti avevano messo in conto una crescita pari a +2,4%.
Su base mensile, l’indice CPI è salito dello 0,1%, meno del +0,2% stimato dal consensus.
Vero è che l’inflazione core preoccupa ancora. Il CPI depurato dalle componenti più volatili rappresentate dai prezzi dei beni alimentari ed energetici è salito infatti al ritmo annuo del 2,8%, al di sotto del +2,9% previsto, rimanendo ancora ben oltre il target del 2% fissato dalla Federal Reserve.
Un particolare che la governatrice della Federal Reserve Adriana Kugler ha sottolineato in un discorso recente: “I progressi nell’abbassare l’inflazione verso il target del 2% della Commissione (FOMC) si sono smorzati a partire dalla scorsa estate, anche se l’inflazione core e headline hanno continuato a scendere ”.
Kugler ha ricordato che l’indice preferito di inflazione del FOMC basato sulle spese per consumi personali (PCE) è salito del 2,1% annuo ad aprile. Piuttosto vicino al target del FOMC, ma in quanto zavorrato principalmente dal calo dei prezzi energetici (prezzi di per sé volatili che, negli attuali tempi di guerra, potrebbero tornare a impennarsi da un momento all’altro, come d’altronde è già accaduto con la notizia dell’attacco sferrato venerdì scorso da Israele all’Iran).
Un messaggio più chiaro è arrivato dall’inflazione core - che esclude i prezzi dei beni alimentari ed energetici ed è una buona guida per l’inflazione futura -, che si è attestata al 2,5%, “ motivo per cui credo che la nostra politica monetaria, che io considero moderatamente restrittiva, sia al momento appropriata per raggiungere in modo sostenibile il target di inflazione nel più lungo periodo ”, ha spiegato la governatrice della Banca centrale americana. Della serie, non è il caso di mollare la presa sull’inflazione.
Sebbene queste dichiarazioni siano state rilasciate prima della pubblicazione dell’indice più recente relativo ai prezzi al consumo va sottolineato che, essendo il CPI in linea con le attese, il commento della governatrice rimane più che attuale.
In un contesto in cui l’inflazione non è ancora sotto controllo, sui mercati le previsioni continuano così a spostarsi in avanti, intravedendo nella riunione del FOMC del 17-18 settembre il giorno in cui i tassi sui fed funds della Fed saranno - finalmente per Trump e per i cittadini americani - tagliati, per la prima volta nel 2025 e dall’ultima sforbiciata, che risale allo scorso mese di dicembre (il terzo, e per ora l’ultimo, da quando la Banca centrale americana ha iniziato a ridurre i tassi di interesse USA lo scorso settembre).
Inflazione PCE core fino al 3,4% con dazi Trump? La parola a Goldman Sachs
Nel frattempo la divisione di ricerca di Goldman Sachs ha fatto un po’ di conti sugli effetti inflazionistici dei dazi di Trump, annunciando di ritenere che le conseguenze delle tariffe sui prezzi al consumo degli Stati Uniti potrebbero far balzare il dato relativo all’inflazione PCE core fino al massimo del 3,4%.
Altro che 2% del target della Fed: “Ci aspettiamo anche che i dazi riducano la crescita del PIL quest’anno di quasi 1 punto percentuale, attraverso un effetto sulle spese per consumi in stile aumento delle tasse e a causa dell’impatto delle incertezze politiche sugli investimenti delle aziende”.
Considerando anche gli effetti di altri cambiamenti alle politiche fiscali e di immigrazione, Goldman Sachs stima che la crescita del PIL USA, nel corso del quarto trimestre del 2025, potrebbe confermarsi inferiore su base annua al suo potenziale mentre, per quanto concerne il dot plot che sarà annunciato dopodomani in concomitanza con la diffusione delle nuove proiezioni macroeconomiche, non vengono previste grandi variazioni.
A suo avviso, il grafico che riassume le aspettative degli esponenti del FOMC sul trend futuro dei tassi indicherà due tagli dei tassi al 3,875% nel 2025, altri due al 3,375% nel 2026 e un tasso fino al 3,125% nel 2027, a fronte di un tasso neutrale identificato al 3%.
Detto questo, la Fed continuerà a essere lacerata dai dubbi, in quanto “prevediamo che i dot del 2025 mostreranno 10 partecipanti (del FOMC) che punteranno a due tagli nel 2025, contro nove che indicheranno o un taglio oppure nessun taglio ” nel corso dell’anno.
Svizzera verso tassi allo zero, vicino il ritorno ai tassi negativi
Nel frattempo, in una settimana che vedrà protagoniste le decisioni anche di altre banche centrali, si torna a parlare nel mondo di una istituzione in particolare che sarebbe prossima, questa settimana, esattamente giovedì prossimo 19 giugno, a tagliare i tassi fino allo zero.
E’ la Banca centrale della Svizzera, ergo la Swiss National Bank, che dovrebbe azzerare i tassi di interesse facendoli scendere dallo 0,25% attuale, valore dei tassi già tra i più bassi al mondo.
Le stime di una riduzione dei tassi elvetici di 1/4 di punto percentuale sono emerse da un sondaggio lanciato dall’agenzia Reuters, che ha citato quanto riferito da una schiacciante maggioranza di economisti interpellati nei giorni compresi tra l’11 e il 16 giugno, esattamente 27 su 30.
Ma non manca chi scommette su un maxi taglio, dunque al ritorno ai tassi negativi: i restanti tre economisti interpellati dal sondaggio hanno detto infatti di prevedere una sforbiciata di 50 punti base, che porterebbe i tassi della Svizzera a scivolare al -0,25%.
La maggioranza tuttavia dice per ora -25 punti base: “Prevediamo un taglio dei tassi di 25 punti base giovedì allo zero per cento, un livello che dovrebbe durare per un lungo periodo di tempo. Non crediamo che l’SNB riporterà i tassi al livello negativo. Ovviamente, esiste il chiaro rischio che lo faccia, ma in questo momento non crediamo che l’SNB voglia davvero varare una sforbiciata dei tassi di 50 punti base ”, ha commentato un esperto interpellato da Reuters durante il sondaggio, ovvero Raphael Olszyna-Marzys, economista di J. Safra Sarasin.
Tutto, mentre in Svizzera è evidente il timore di una economia orientata a scivolare in una fase di deflazione, a causa del rafforzamento del franco svizzero che, sulla scia della crisi di fiducia che ha investito il dollaro USA subito dopo l’annuncio dei dazi di Trump, ha continuato a correre, balzando di oltre l’11% nei confronti del biglietto verde questa settimana e rimanendo solido anche nei confronti dell’euro.
L’effetto del rafforzamento del franco - un monito per l’area euro, che pur sta assistendo al rafforzamento della moneta unica, come hanno avvertito diversi economisti che suonano già da un po’ il campanello di allarme della deflazione per l’Eurozona - ha fatto scendere il tasso di inflazione della Svizzera al di sotto del target della Banca centrale Swiss National Bank, compreso tra lo 0% e il 2%, fino al -0,1% il mese scorso. Un numero negativo. E un numero che fa pensare che il ritorno ai tassi negativi non sia poi così lontano.
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