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di Redazione Orbetech

Per una nuova te(cn)ologia politica

Redazione Orbetech

19 novembre 2021

Per una nuova te(cn)ologia politica

Cerchiamo di comprende quello che chiamiamo post-secolarismo, ciò che avviene «dopo» un processo di secolarizzazione e quale rapporto intercorre tra diritto e tecnologia.

Articolo di Domenico Bilotti

Se volessimo finalmente capire cosa chiamiamo post-secolarismo (ciò che avviene “dopo” un processo di secolarizzazione, quando aumentano contemporaneamente i disincanti individuali e le richieste di riconoscimento delle argomentazioni religiose nella sfera pubblica), dovremmo seriamente mettere in questione l’evoluzione della tecnologia nelle nostre società.

Carl Schmitt aveva adeguatamente teorizzato che il nostro diritto pubblico, apparentemente profano e materialista, interiorizzasse invece la secolarizzazione di principi teologici. Alcuni istituti stanno a dimostrarlo persino nel campo gius-privatistico: le giurisdizioni equitative nascono tanto nei sistemi anglosassoni di common law quanto in quelli continentali di civil law anche a impulso dell’equità canonistica del diritto medievale; i doveri inderogabili di solidarietà del costituzionalismo post-bellico hanno almeno uno stipite in comune con le interpretazioni politico-mondane della carità cristiana; la buonafede nell’esecuzione dei contratti è una forma di lealtà intersoggettiva produttiva di effetti giuridici. La religione e il diritto concorrono a plasmare le culture venendone incessantemente riplasmati ogni volta in cui il loro contatto modifica la semantica della comunità civile.

La crisi della sovranità con cui ci confrontiamo negli ultimi decenni, che riassegna i poteri regolativi sempre più violando le stesse, talora insoddisfacenti, procedure di garanzia che si era data la legalità costituita, riproduce regole di condotta che sanciscono sempre di più la forza normativa della tecnica, dell’economia e dei loro meccanismi di implementazione e controllo. Una riflessione quale quella alla quale ci ha sospinto la pandemia su alcuni crinali fondamentali della giuridicità contemporanea (diritto alla salute e forme della cura, comunicazione di massa e comunicazione a distanza, emergenza come eccezione e regole dell’emergenza) dimostra sempre più impellente una pari ricostruzione dei nessi tra la tecnologia e il diritto, nonché tra la scienza medica e la governance.

Anche questa fase però si deve evitare di guardarla col solo occhio occidentale, tendenzialmente evolutivo, che vede il progresso in quanto direzionalità progressiva: nei momenti di transizione, quando “mutano i paradigmi”, c’è sempre una lunga convivenza tra il dato storico già acquisito, anche nei suoi aspetti più critici, e le incognite generate dalla pari modifica delle situazioni sostanziali. È una cosa, a ben vedere, sulla quale ci hanno indotto a riflettere Harold Berman e Pierre Legendre ancor più dello stesso Thomas Kuhn e della sua celebre opera manifesto “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”.

Non è mistero che a lungo ci si fosse interrogati sulle prospettive del transumanesimo, fino a immaginare permanentemente forme di integrazione tra artificiale e biologico, ibridazioni tra componenti della robotica e materiale genetico umano. Il tema della clonazione integrale di individui aveva ulteriormente aperto la necessità di una discussione di contenuti antichi e forme nuove sulla creazione come atto divino e sulla procreazione quale forma precipua della sessualità umana. Questi temi – la sostituzione degli arti periti, la riproduzione laboratoriale di tessuti, l’impianto di materiale non umano nell’umano – andranno avanti e faranno probabilmente il loro corso, anche se non è mai tardi per darsi non libri bianchi, codici etici di indirizzo, confuse distinzioni teologiche, quanto piuttosto criteri regolativi chiari, trasparenti, basilari, antiautoritari.

E però nella prima fase dell’epidemia che brusca sveglia il ritorno alle fosse comuni per i morti in esubero, all’ecatombe di anziani come nei peggiori contagi dei secoli che furono, al tempo della medicina che, più rapido di quello degli effetti giuridici, certamente non è contestuale tra la scoperta del morbo e la sua soluzione. Anzi, il tempo medico lotta per quella contestualità esattamente quanto il diritto costituzionale lotta all’infinito per l’attuazione dei suoi principi fondamentali: nell’uno e nell’altro caso, orizzonti tendenziali ai quali è costitutivamente dato solo di poter il più possibile avvicinarsi, mai di toccarli davvero. E in questa seconda fase, pur malamente scandita con le chiacchiere pasticciate di ondate varie ed eventuali, che problematico riprecipitare alla negazione integrale e acritica dei ritrovati scientifici!, favorendo a tutti gli effetti salite vertiginose nei contagi dove le vaccinazioni sono state modeste, incomplete o diffusamente osteggiate nella mentalità collettiva, al punto da non raggiungere gli indici di protezione minimi che solo un minimo di vaccinazione di massa può introdurre.

A pensare che il nuovo sia sempre e solo rimozione del vecchio, e non anche e soprattutto rielaborazione della sua radice, rischieremo di fare la fine della scienza politica liberale dopo il 1989, quando Francis Fukuyama declinava la fine della storia come fine del conflitto per l’individuazione del miglior sistema possibile. Un vincitore per Fukuyama già c’era ed era il diritto liberista di un consumatore spersonalizzato nelle sfere d’azione del capitalismo multinazionale.

Il fondamentalismo, le economie non liberali di sfruttamento della manodopera, le catastrofi ambientali e le epidemie sono andati a chiedere al capitalismo in persona: qual è il nostro posto in questa storia che finisce? E pure la domanda che ci poniamo anche tra noi è in fondo una domanda posta male. No: la storia non finisce, come non finiscono le necessità metodologiche di un vero pensiero di comprensione e trasformazione dell’esistente. Restino pure le etichette già note, ma sotto si muova l’impeto di un tempo che solo ai processi di mediazione interculturale potrà riuscire di pacificare.

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