Come recuperare i soldi da un’azienda fallita?

Giorgia Dumitrascu

25 Agosto 2025 - 13:21

Per i creditori di un’azienda fallita non conta solo avere un credito certo: priorità, tempi e patrimonio disponibile fanno la differenza tra recupero e perdita.

Come recuperare i soldi da un’azienda fallita?

Nel secondo trimestre del 2025 le liquidazioni giudiziali aperte in Italia sono state 2.712, con un aumento del 18% rispetto all’anno precedente. Dietro questa cifra ci sono fornitori che attendono fatture inevase, dipendenti che non ricevono lo stipendio e professionisti che rischiano di non vedere mai il frutto del proprio lavoro.

Per chi resta creditore di un’impresa insolvente, il percorso non è lineare, la legge disegna una mappa di priorità e garanzie, ma sul piano pratico il recupero dipende da una combinazione di fattori , dal tipo di credito al patrimonio disponibile, fino alla capacità del curatore di far rientrare atti pregiudizievoli compiuti prima della crisi. In questo scenario, anche un credito certo e documentato può trasformarsi in una lunga attesa o in un recupero solo parziale.

Quali crediti puoi recuperare da un’azienda fallita?

Se un’azienda a cui hai fornito beni o servizi entra in liquidazione giudiziale, la procedura che ha sostituito il fallimento, la prima domanda che ti farai è: riuscirò a riavere indietro i miei soldi? La risposta non è uguale per tutti i creditori, perché la legge stabilisce un ordine preciso di pagamento.

Il principio di base è quello della par condicio creditorum, fissato dall’art. 2741 c.c.:

«Tutti i creditori hanno pari diritto di essere soddisfatti sul patrimonio del debitore, salvo le cause legittime di prelazione».

Ciò significa che, salvo ipoteca, pegno o privilegi stabiliti dalla legge, nessuno può “scavalcare” gli altri.
In primo luogo occorre distinguere tra crediti privilegiati e crediti chirografari.

Secondo l’art. 2745 c.c., il privilegio è una “causa legittima di prelazione che la legge accorda in considerazione della causa del credito”. A differenza di ipoteca e pegno, non nasce da un contratto o da una scelta delle parti, ma direttamente dalla legge, che attribuisce priorità a determinati crediti ritenuti più meritevoli di tutela (per esempio quelli di natura fiscale o retributiva). Accanto ai crediti privilegiati, troviamo i crediti chirografari, cioè quelli privi di garanzie particolari, che vengono soddisfatti solo se resta qualcosa dopo i privilegiati.

La graduazione tra i privilegi

Tra i crediti privilegiati non vige uguaglianza, infatti, la legge stabilisce una graduazione. In linea generale, il privilegio speciale, che colpisce beni determinati del debitore (come un immobile o un macchinario), prevale sugli altri crediti che non hanno garanzie su quello stesso bene. Accanto a esso troviamo il privilegio generale, che grava su tutti i beni mobili, e gli strumenti di garanzia reale: pegno e ipoteca.

Il meccanismo, tuttavia, non è sempre lineare. L’art. 2748 c.c. disciplina i rapporti tra privilegi, pegni e ipoteche distinguendo a seconda che si tratti di beni mobili o immobili:

  • sui beni mobili, prevale il pegno;
  • sugli immobili, il privilegio immobiliare speciale può prevalere sull’ipoteca.

Quindi, la legge crea una gerarchia che va applicata caso per caso, e spetta al giudice delegato stabilire l’ordine di soddisfazione in base alla natura del bene e alla tipologia di garanzia.
Ad esempio, se un macchinario è dato in pegno a una banca ma sullo stesso bene un fornitore vanta un privilegio speciale, la banca verrà pagata per prima perché, sui beni mobili, il pegno prevale. Se invece si tratta di un immobile gravato da ipoteca e da privilegio speciale immobiliare, la precedenza spetta al creditore privilegiato, non alla banca.

Da dove si inizia per recuperare i soldi: come verificare se l’azienda è fallita

In primo luogo occorre verificare se l’impresa debitrice è già stata dichiarata insolvente dal tribunale. Ciò perché, dal momento in cui viene aperta la liquidazione giudiziale il creditore non può più tentare azioni individuali come ingiunzioni o pignoramenti, ma deve insinuarsi nello stato passivo.

Lo strumento per verificare la situazione è la visura camerale rilasciata dalla Camera di commercio. In questo documento si può leggere se l’azienda è in semplice liquidazione volontaria, cioè una scelta interna e volontaria degli amministratori per chiudere l’attività e pagare i debiti; oppure se il tribunale ha aperto una liquidazione giudiziale. In quest’ultimo caso, la visura riporta gli estremi del provvedimento, il nome del curatore nominato e quello del giudice delegato.

Cosa accade con l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale?

L’apertura della liquidazione giudiziale segna una cesura netta. Con il decreto del tribunale, che prende il posto della vecchia “sentenza di fallimento”, si apre la procedura: vengono nominati il curatore e il giudice delegato, e viene fissata l’udienza per la verifica dello stato passivo. È in quella sede che i creditori devono presentare l’istanza di ammissione per veder riconosciuto il loro credito.

Prima della pronuncia del tribunale, è ancora possibile tentare le vie ordinarie: solleciti di pagamento, ricorso per decreto ingiuntivo, azioni esecutive. Tuttavia, se interviene l’accertamento dell’insolvenza, tutte le azioni individuali restano sospese e confluiscono nella procedura concorsuale. Infatti, l’art. 150 del Codice della crisi d’impresa (CCII), che prevede l’arresto di ogni esecuzione forzata dal giorno della dichiarazione di apertura.

Non tutti i creditori possono chiedere l’apertura della liquidazione giudiziale. La legge richiede infatti una soglia minima di insolvenza. L’art. 49, co. 5, CCII.

“La procedura non si apre se i debiti scaduti e non pagati sono complessivamente inferiori a 30.000 euro. Solo al superamento di questo limite il creditore può presentare istanza, altrimenti deve limitarsi agli strumenti ordinari di recupero.”

In ogni caso, la soglia di 30.000 euro concerne l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale. Una volta che il tribunale ha avviato la procedura, tutti i creditori, anche quelli con importi inferiori, possono insinuarsi nello stato passivo e chiedere il riconoscimento del loro credito.

Come presentare l’istanza di ammissione al passivo: termini, modalità e costi

Come detto, una volta aperta la liquidazione giudiziale, ogni creditore che voglia recuperare il proprio credito deve presentare la domanda di ammissione allo stato passivo.

“Solo chi deposita questa istanza potrà partecipare alla distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione.”

La domanda si deposita in via telematica. Deve essere inviata via PEC al curatore nominato dal tribunale, corredata dai documenti che provano l’esistenza e l’entità del credito. Contratti, fatture, estratti conto, buste paga o scritture contabili: senza prova documentale adeguata, il credito non può essere ammesso. L’art. 201 CCII specifica che il ricorso deve indicare i dati identificativi del creditore, la somma domandata, la sua eventuale causa di prelazione e l’indirizzo di posta elettronica certificata.

Termini: tempestiva, tardiva e ultratardiva

Il legislatore distingue tre ipotesi. La domanda tempestiva è quella presentata entro il termine fissato nel decreto del tribunale: di regola, fino a 30 giorni prima dell’udienza di verifica dello stato passivo. Se il deposito avviene dopo quel limite, ma comunque entro 6 mesi dal decreto che rende esecutivo lo stato passivo (termine prorogabile fino a 12 mesi nei casi più complessi), la domanda è detta tardiva ed è ancora ammissibile, seppur con minori garanzie di soddisfacimento.

Diversa è la situazione della domanda ultratardiva: oltre i 6 o 12 mesi, il creditore potrà essere ammesso solo se prova che il ritardo non gli è imputabile e deposita la domanda entro sessanta giorni dalla cessazione della causa che ha impedito il deposito tempestivo. In mancanza, l’istanza non verrà presa in considerazione.

A chi rivolgersi? curatore, giudice delegato e avvocato

Per quanto concerne la gestione della liquidazione giudiziale, la legge prevede tre figure con cui il creditore deve confrontarsi: il curatore, il giudice delegato e, per la tutela individuale, il proprio avvocato.

“Il curatore è il professionista nominato dal tribunale con il compito di amministrare il patrimonio del debitore.”

Non si limita a vendere i beni: redige l’inventario, gestisce le operazioni di liquidazione, raccoglie e analizza le domande di insinuazione e predispone il progetto di stato passivo. In pratica, è lui che valuta preliminarmente ogni credito, formula le proprie osservazioni e le sottopone al giudice delegato. Per il creditore ciò significa che la prima verifica non è giudiziaria ma tecnica: la solidità della documentazione depositata viene esaminata dal curatore.

“Il giudice delegato è il magistrato incaricato di vigilare sulla regolarità della procedura.”

Non si limita a un controllo formale: decide sulle eccezioni, approva o rigetta le domande e applica le regole di prelazione previste dal Codice Civile. È il garante della par condicio creditorum (art. 2741 c.c.). In questo senso, l’intervento del giudice non è astratto: è lui che, alla fine, determina quali crediti entrano nello stato passivo e con quale grado di soddisfazione.

Infine, c’è l’avvocato del creditore. La legge consente al creditore di presentare la domanda anche senza assistenza tecnica, ma nella prassi l’avvocato è indispensabile. Un’istanza incompleta o priva di prove rischia infatti di essere respinta, e in caso di contestazioni solo un difensore può rappresentare il creditore davanti al giudice delegato. Per i soggetti con reddito basso la legge prevede una tutela specifica: il patrocinio a spese dello Stato (artt. 74 ss. d.P.R. 115/2002), che consente di essere assistiti gratuitamente se ricorrono i requisiti reddituali.

Costi e spese legali per l’ammissione al passivo

Uno degli aspetti più delicati per chi intende insinuarsi nello stato passivo riguarda i costi della procedura. Dal punto di vista fiscale, la domanda di ammissione non comporta spese: è esente dall’imposta di bollo e dal contributo unificato. Restano però a carico del creditore le spese legali, soprattutto se sceglie di farsi assistere da un avvocato per predisporre l’istanza e affrontare eventuali eccezioni.

Sul punto la giurisprudenza della Cassazione ha fornito chiarimenti importanti. Possono essere ammessi al passivo soltanto i costi necessari e documentati per far valere il credito: ad esempio le spese vive di deposito o quelle esecutive (artt. 2755 e 2770 c.c.). Invece, gli onorari professionali, non sono considerati in automatico privilegiati. La Corte ha escluso che il compenso dell’avvocato per la redazione della domanda possa gravare sulla massa dei creditori, salvo che sia espressamente riconosciuto come spesa indispensabile dal giudice.

Gli importi degli onorari professionali restano quindi a carico del creditore, secondo i parametri forensi fissati dal D.M. 55/2014, che variano in base al valore del credito e alla complessità della causa.

Tempi della procedura e rimedi quando l’attivo non basta

Non esiste una durata standard per la liquidazione giudiziale. Molto dipende dalla complessità del patrimonio da liquidare, dal numero dei creditori e da eventuali contenziosi. In media, una procedura semplice può chiudersi in circa 2 anni, ma nei casi più articolati, ad esempio con beni immobili da vendere, opposizioni allo stato passivo o liti pendenti, i tempi possono estendersi ben oltre, anche con proroghe successive.

“Venduti i beni e riscosse le somme dovute all’impresa fallita, il curatore predispone i piani di riparto, prospetti nei quali vengono indicate le somme disponibili e la loro distribuzione tra i creditori.”

In questa fase i creditori privilegiati vengono soddisfatti per primi, mentre i chirografari ricevono solo ciò che resta, con percentuali spesso molto ridotte.

Cosa succede se l’attivo è insufficiente?

Può accadere che il patrimonio dell’impresa non basti nemmeno a coprire i crediti privilegiati. In tali casi, il legislatore ha previsto strumenti per tentare di recuperare ulteriori risorse:

  • azione revocatoria fallimentare (artt. 166-170 CCII): consente di far rientrare nel patrimonio atti compiuti dal debitore prima della procedura e ritenuti pregiudizievoli, come vendite sottocosto a soggetti vicini o rimborsi preferenziali a determinati creditori;
  • azione di responsabilità verso amministratori e soci (artt. 2476 e 2394 c.c.): può essere promossa se la gestione è stata gravemente negligente o dolosa e ha aggravato l’insolvenza. In questo caso, si mira a colpire il patrimonio personale degli amministratori;
  • profili penali: quando la condotta integra bancarotta fraudolenta o distrazione di beni, si apre anche la responsabilità penale, con conseguente possibilità di confisca e azioni risarcitorie in sede penale.

Una tutela particolare è riservata ai dipendenti. Quando l’impresa fallisce senza avere risorse sufficienti per pagare stipendi e TFR, interviene il Fondo di garanzia INPS, che copre il TFR maturato e le ultime retribuzioni. In questo modo si evita che l’insolvenza dell’azienda si traduca in una perdita totale dei diritti retributivi. La procedura è autonoma e può essere attivata dal lavoratore anche senza attendere la chiusura della liquidazione, purché il credito sia stato accertato nello stato passivo.

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