Giorgetti prova a spiegare la ragione per cui in legge di Bilancio 2026 ci sono agevolazioni solo per chi guadagna più di 28.000 euro. Ma peggiora la situazione.
La legge di Bilancio favorisce davvero i ricchi, come sostiene l’opposizione? È una polemica che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha provato a spegnere sul nascere, ma con scarso successo.
Nel corso dell’evento Città Impresa che si è tenuto a Bergamo, il ministro ha difeso la scelta del governo Meloni di tagliare le imposte solo per chi guadagna più di 28.000 euro, con il vantaggio massimo per i redditi superiori a 50.000 euro (ma fino a un massimo di 200.000 euro). “Chi guadagna 50.000 euro l’anno, circa 2.000 euro netti al mese, non è ricco” ha dichiarato, spiegando che l’obiettivo della manovra è sostenere il ceto medio, una fascia che comunque non è immune da difficoltà economiche.
Parole che però sollevano altre domande. Per quanto sia vero che oggi in Italia 2.000 euro netti non bastano per definirsi benestanti, resta il dubbio sul perché chi guadagna meno, e dunque vive in condizioni economiche più fragili, sia rimasto escluso dai nuovi aiuti.
Se chi percepisce 2.000 euro al mese non è ricco, come definire chi ne guadagna appena 1.000? Si tratta spesso di lavoratori a rischio povertà, dimenticati dall’ultima manovra se non per le agevolazioni fiscali sul salario accessorio, comunque insufficienti a garantire un reale aumento in busta paga.
Per i redditi sotto i 28.000 euro, infatti, la manovra si limita a confermare il taglio del cuneo fiscale e la revisione della prima aliquota Irpef: misure già in vigore nel 2025 e che, di conseguenza, non porteranno variazioni nella prima busta paga del 2026.
Soldi a chi guadagna di più, il governo non sa dare una spiegazione
Il taglio dell’Irpef introdotto nel 2024, con l’estensione del primo scaglione - tassato al 23% - fino ai redditi di 28.000 euro, ha portato benefici anche a chi guadagna di più.
Il sistema fiscale italiano, infatti, suddivide il reddito personale in diversi scaglioni, ognuno dei quali è soggetto a una specifica aliquota. Ciò significa che chi percepisce, ad esempio, 40.000 euro lordi annui paga il 23% sui primi 28.000 euro, mentre la parte restante è tassata al 35%, aliquota che nel 2026 scenderà al 33% con annessi vantaggi sullo stipendio netto. In pratica, questo contribuente ha già ottenuto un vantaggio di circa 260 euro netti l’anno grazie al taglio Irpef precedente, a cui dal 2026 si aggiungeranno altri 240 euro, per un risparmio complessivo di circa 500 euro annui, pari a 38 euro in più al mese.
Ben diversa è la situazione di chi guadagna 1.000 euro al mese, cioè circa 13.000 euro lordi annui, reddito interamente tassato - già prima del 2024 - con l’aliquota del 23%. Questa fascia non ha beneficiato né del primo né del secondo taglio Irpef. Può tuttavia contare sul trattamento integrativo (ex bonus Renzi) di 100 euro mensili e sul taglio del cuneo fiscale, pari al 5,3% della retribuzione, che corrisponde a circa 53 euro al mese. In totale, dunque, circa 153 euro netti in più ogni mese, ovvero 1.836 euro l’anno.
Giorgetti, quindi, non sbaglia tanto sul piano tecnico quanto su quello comunicativo. Nel difendere la misura, il ministro trascura di sottolineare che l’intervento a favore del ceto medio arriva dopo anni in cui i redditi più bassi sono già stati sostenuti dalle ultime leggi di Bilancio. La scelta del governo è dunque quella di riequilibrare, favorendo chi finora aveva ricevuto meno benefici fiscali.
Basti pensare che i contribuenti con redditi superiori a 50.000 euro erano rimasti esclusi dal precedente taglio Irpef, poiché per loro era stata ridotta la detrazione da lavoro dipendente di 260 euro, annullando di fatto ogni vantaggio. Allo stesso modo, chi guadagna oltre 32.000 euro ha ricevuto solo un taglio parziale del cuneo fiscale, progressivamente più basso fino ad azzerarsi al raggiungimento della soglia dei 40.000 euro.
Giorgetti, l’errore non è tecnico ma di comunicazione
Una persona che guadagna 1.000 euro al mese, ascoltando le parole del ministro dell’Economia, potrebbe facilmente restare spiazzata. Senza un’adeguata contestualizzazione, che non si può pretendere da chi non ha familiarità con le regole fiscali o con il meccanismo della busta paga, il messaggio rischia infatti di risultare distorto e contraddittorio. Se è vero che oggi 2.000 euro al mese non bastano per definirsi “ricchi”, è altrettanto innegabile che con 1.000 euro, o anche meno nei casi di lavoro part-time, è difficile arrivare alla fine del mese.
In questo senso, Giorgetti non ha commesso errori tecnici, né il governo ha agito in modo irrazionale nel decidere di concentrare gli aiuti sul ceto medio, storicamente rimasto escluso dalle agevolazioni pensate per i redditi più bassi. Tuttavia, è mancata chiarezza nella comunicazione: un concetto economico complesso, espresso in modo sintetico, può facilmente essere travisato e trasformarsi in un titolo ad effetto.
Una spiegazione più completa avrebbe permesso di far capire che l’obiettivo della manovra non è “premiare i ricchi”, ma ridurre un divario di benefici fiscali accumulato nel tempo. Senza questa premessa, però, il rischio è che il messaggio politico venga percepito come ingiusto, alimentando la frustrazione di chi, con stipendi modesti, non riesce comunque a vedere miglioramenti tangibili nella propria busta paga.
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