Il governo sta lavorando a una soluzione per aumentare gli stipendi a partire dal prossimo anno: ecco come verrà data una spinta ai rinnovi di contratto.
Il governo sembrerebbe aver trovato la soluzione per incentivare gli aumenti in busta paga attraverso i rinnovi di contratto.
Come noto, in Italia la proposta sull’introduzione del salario minimo non ha avuto seguito in quanto il governo Meloni ritiene che non si tratti di un’urgenza visto che la maggioranza dei lavoratori italiani, circa il 99%, è tutelata dalla presenza di un contratto collettivo nazionale. Proprio nel respingere la proposta delle opposizioni è stata approvata una legge delega che concede al governo ampi poteri per il rafforzamento della contrattazione collettiva, con l’obiettivo di incentivare i rinnovi di quei contratti scaduti in modo da riconoscere ai lavoratori gli aumenti di stipendio necessari al recupero del potere d’acquisto.
A tal proposito, in vista della legge di Bilancio 2026 potrebbe essere introdotta una soluzione: fare in modo che gli aumenti riconosciuti a margine della contrattazione siano detassati. In questo modo sarà più semplice raggiungere un’intesa tra le parti, in quanto ci si potrebbe accordare su cifre lorde più basse consapevoli che nelle tasche dei lavoratori entreranno comunque più soldi. Meno costi per le aziende quindi, ma stessi vantaggi per i lavoratori.
Non è raro, infatti, che ci siano contratti scaduti da molti anni in cui si fatica a raggiungere un accordo. Il pubblico impiego, dove vanno avanti ancora le negoziazioni per il triennio 2022-2024 mentre siamo già entrati nel nuovo periodo 2025-2027, ne è la dimostrazione, ma non è l’unico: anche nel settore privato ci sono contratti scaduti da anni con i lavoratori che attendono con ansia di ricevere un aumento in busta paga.
La soluzione pensata dal governo per incentivare i rinnovi di contratto
Come anticipato, la soluzione individuata dal governo per incentivare i rinnovi contrattuali prevede una tassazione agevolata sugli aumenti di stipendio riconosciuti dalle nuove intese.
L’idea di fondo è semplice, tanto che se ne parla già da molti anni: ridurre o persino azzerare le tasse sugli incrementi retributivi per far sì che nelle tasche dei lavoratori arrivi un beneficio netto maggiore rispetto al passato, senza però appesantire troppo i costi per le aziende. In questo modo, la contrattazione potrebbe diventare più rapida e meno conflittuale, dal momento che le parti avrebbero margini più ampi per raggiungere un accordo.
Più precisamente, l’ipotesi maggiormente battuta in questo momento prevede l’applicazione di una tassazione ridotta, fino a una sorta di flat tax al 5% o in alternativa uno sconto del 50% sull’imposta ma solo per un periodo limitato, ad esempio tre anni (la validità del contratto), così da trasformare l’aumento lordo stabilito nei contratti in un incremento reale di busta paga più consistente.
Nel frattempo, il governo pensa anche di legare il beneficio al rispetto di tempi precisi, premiando i contratti rinnovati entro 6 mesi dalla scadenza naturale e scoraggiando i ritardi che in passato hanno bloccato trattative per anni.
Nel dettaglio, prendiamo come esempio un lavoratore che con il rinnovo del contratto ottiene 100 euro lordi in più al mese. Oggi, tolte le tasse, in busta paga ne resterebbero circa 65. Con la detassazione ipotizzata dal governo, invece, il netto potrebbe salire a circa 95 euro, quasi l’intero importo dell’aumento concordato. Stesso discorso per gli aumenti più consistenti: con un rinnovo da 200 euro lordi, oggi il beneficio reale sarebbe attorno ai 130 euro netti, mentre con l’agevolazione fiscale si potrebbe arrivare a 190 euro. In pratica, le imprese si troverebbero a sostenere un costo inferiore rispetto a un aumento “pieno”, ma i dipendenti vedrebbero ugualmente crescere in modo significativo lo stipendio.
Aumenti automatici di stipendio
Accanto agli incentivi fiscali, il governo sta studiando anche un meccanismo automatico di rivalutazione per proteggere i lavoratori in caso di rinnovi che vengono rimandati da troppo tempo.
La proposta prevede che, se entro 24 mesi dalla scadenza il nuovo contratto non è ancora stato firmato, gli stipendi verranno comunque adeguati ogni anno a luglio in base all’andamento dell’inflazione. L’indice di riferimento sarebbe quello dei prezzi al consumo armonizzati a livello europeo (Ipca), con un tetto massimo del 5% per evitare squilibri nei conti pubblici. In questo modo, i lavoratori non subirebbero più passivamente gli effetti di trattative infinite e dell’aumento del costo della vita, mentre le imprese e le parti sociali resterebbero comunque incentivate a chiudere un accordo definitivo per stabilizzare le retribuzioni.
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