La fine dell’euro non significa fine del mondo: la parola al Nobel Joseph Stiglitz

admin

10 Novembre 2017 - 10:34

Per il premio Stiglitz, la fine dell’euro non significherebbe “fine del mondo” e l’austerità non è mai una soluzione.

La fine dell’euro non significa fine del mondo: la parola al Nobel Joseph Stiglitz

Questo articolo è stato originariamente pubblicato il 19/09/2012

Dopo Paul Krugman, anche un altro premio Nobel afferma con convinzione che, qualora dovesse esserci, la fine dell’euro non sarà la fine del mondo: si tratta di Joseph Stiglitz, professore della prestigiosa Columbia University, autore di un libro molto interessante e dal titolo più che suggestivo: "The price of inequality", ovvero "Il prezzo della disuguaglianza".

La disuguaglianza delle opportunità porta ad un’economia poco produttiva

Nel libro in questione, Stiglitz afferma con preoccupazione alcuni concetti alla base del prevedibile tracollo americano: "il prezzo della diseguaglianza" intende raccontare proprio le conseguenze che il nuovo corso del sistema americano sta perseguendo. "Una società più divisa", "un’economia meno produttiva", sono solo alcuni tra i fattori che determinano il prezzo da pagare.

"Uno degli aspetti più importanti della disuguaglianza in America oggi", ha dichiarato in una recente intervista a euronews.com, "è la disuguaglianza di opportunità ".
In parole povere, i giovani nati da famiglie poco benestanti, non avranno la possibilità di far esplodere le proprie potenzialità, e ciò impedirà all’America di sfruttare un ampio bacino di risorse, risorse che resteranno inutilizzate e dunque impoveriranno ulteriormente gli Stati Uniti.

"Quando si ha una società molto divisa", continua Stiglitz "come quella che abbiamo oggi negli Stati Uniti, significa avere maggiori difficoltà nell’ottenere un consenso politico. Ciò porta a una ripartizione della politica, del processo democratico ". La diretta conseguenza di questo processo, secondo il premio Nobel, porta a una riduzione degli investimenti in settori vitali per ottenere un’economia produttiva, come la tecnologia, l’istruzione e le infrastrutture.

Le parole di Stiglitz rappresentano dunque uno schiaffo bello e buono al Sogno Americano. Ma in tempi di crisi europea, la discussione non può che non cadere sulla crisi della zona Euro: "L’Europa è meglio degli Stati Uniti", afferma Stiglitz a proposito del raffronto tra disuguaglianze, eppure "ciò che mi preoccupa è che, sempre più, alcuni Paesi in Europa stanno imitando il modello americano". Il pensiero ricorre subito al Regno Unito, che "30 anni fa era appena nella media del livello di disuguaglianza tra i Paesi industriali avanzati dell’OCSE, mentre oggi è il numero due dietro gli Stati Uniti". L’Europa, secondo Stiglitz, può ancora contare sui Paesi scandinavi, che vengono rappresentati da società molto più avanzate riguardo l’uguaglianza delle opportunità, ma allo stesso tempo "i Paesi del continente europeo più alla deriva seguono lo stile americano, e ciò è un problema".

L’austerity è il male, non la cura

E naturalmente, ciò è diretta conseguenza dell’austerity, che per Stiglitz "è particolarmente grave" perché "quando c’è l’austerità, la domanda cala, e quando la domanda cala, si riduce la crescita e aumenta la disoccupazione", il che porta a una riduzione dei salari e a un taglio dei servizi sociali, che allo stesso tempo comporta un aumento della disuguaglianza, soprattutto per quel che concerne le opportunità.
La soluzione per uscire dalla crisi, quindi, non deve provenire dall’austerity, bensì dalla crescita e dagli investimenti, al fine di risollevare un’economia che oggi è debole e che ha causato il deficit. Qualora invece si decidesse di perseguire la strada dell’austerity, l’economia non subirà alcun processo di crescita, aumentando così i rischi di recessione e tracolli sistemici.

La fine dell’euro non sarebbe la fine del mondo

Tuttavia, per Stiglitz, la fine dell’euro non significherebbe "fine del mondo".
In un’intervista a Le Nouvel Observateur, Stiglitz esprime gli stessi concetti: " L’austerità non è la soluzione. Non consente ai governi di aiutare le imprese a passare dalla vecchia alla nuova economia, ma limita invece le possibilità di sostegno ". Una gestione più intelligente e razionalizzata della spesa potrebbe essere un’ulteriore soluzione: l’esempio americano, ovvero quello di investire nella Difesa per combattere nemici che non esistono, è assolutamente da evitare.
Anche al settimanale francese, Stiglitz ci tiene a ribadire che l’austerità non è la soluzione perché " conduce alla recessione, così come in Spagna ha portato alla depressione ". "I leader europei", incalza l’economista "continuano a dire che la crescita è necessaria. Lo continuano a ripetere da anni, ma non hanno proposto nulla di concreto in questa direzione".

E allora perché i grandi capi continuano a perseverare diabolicamente nello stesso errore? "Il grande errore degli europei, e della Germania in primo luogo", spiega Stiglitz "è che fanno una diagnosi sbagliata del problema. Essi credono che la crisi derivi da un atteggiamento troppo spendaccione. Eppure l’Irlanda e la Spagna, prima della crisi, erano in surplus, e non sono state certamente le spese a mandarle a fondo. E’ la crisi che ha causato il deficit, non il contrario".

Qual è la soluzione per uscire dalla crisi?

Dopo le analisi, non si può non ragionare sulle proposte e sulle soluzioni possibili: una tra queste è compensare la mancanza di norme e stabilire una regolamentazione comunitaria, che si occupi di "mettere in comune i debiti, implementare un sistema finanziario comune, armonizzare le imposto, modificare il mandato della Banca Centrale Europea per farla concentrare sull’inflazione, sull’occupazione, sulla crescita e sulla stabilità finanziaria".
Urgono dunque riforme importanti sotto questo aspetto, che tendano ad allontanare il pericolo delle disuguaglianze e a fornire ai giovani pari opportunità.

Tuttavia Stiglitz sottolinea anche quando avere un grande mercato come quello europeo sia caratterizzato da "vantaggi e svantaggi". E se questo grande mercato non si può riformare, allora non sarà "poi così male tornare alle vostre vecchie monete. Le unioni monetarie spesso durano poco tempo". "L’idea che sarebbe la fine del mondo è sbagliata. Ne conseguirebbe un periodo molto difficile, ma la fine dell’euro non sarebbe la fine del mondo ". Non serve a nulla "la cura che uccide il paziente. Dire ’Vi aiuterò, ma prima dovete suicidarvi’", come sta accadendo in Spagna "non dà molte speranze".

Come limitare il potere delle banche

L’interessante discussione si sposta poi sulle grandi banche e sul potere da loro esercitato: l’esempio da non seguire è quello della Goldman Sachs, ma diversi istituti, errando, stanno seguendo le sue orme e rifacendo gli stessi errori. Servirebbe perciò una regolamentazione anche da questo punto di vista: "Il problema, oggi, è che le banche hanno molto potere, anche politico. E che i nostri politici sono guidati dal denaro". Una soluzione sarebbe quella di " separare le attività commerciali dalle attività d’investimento delle banche ".

Quella di cambiare il sistema bancario, tuttavia, è una grande battaglia e come ogni grande battaglia è difficile da affrontare. Eppure, nonostante "i poteri in atto siano molto forti", si può fare "in modo che le cose comincino a cambiare", anche iniziando da quelle meno visibili. "Possiamo portare avanti tante piccole battaglie", conclude "ma condurre grandi battaglie è molto più difficile".

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