Tanti si chiedono se un ex datore di lavoro può decidere deliberatamente di riassumere un dipendente che si è dimesso: ecco cosa dice la legge in proposito.
L’idea di dare le dimissioni volontarie è spesso associata a un momento di svolta, un confine netto tra ciò che è stato e ciò che si desidera per il proprio futuro professionale. Negli ultimi anni, soprattutto dopo la digitalizzazione definitiva delle procedure e il continuo mutare del mercato del lavoro, dimettersi non è più un gesto raro né carico di timori come un tempo. Dal 2022 al 2025 il numero di lavoratori che hanno scelto di lasciare spontaneamente il proprio impiego è cresciuto in modo costante, con oscillazioni legate al settore, alla ricerca di condizioni più favorevoli o alla necessità di conciliare vita privata e lavoro.
In Italia, oggi, dimettersi significa seguire una procedura ormai standardizzata e tracciabile, tramite la piattaforma telematica del Ministero del Lavoro, raggiungibile sulla pagina dedicata alle dimissioni online. Si tratta di una modalità introdotta per semplificare la burocrazia ma anche per contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco, una pratica che per anni ha penalizzato soprattutto le donne e che oggi - grazie alla digitalizzazione obbligatoria - risulta praticamente azzerata.
Tuttavia, tra chi decide di lasciare un’azienda può affiorare un dubbio tutt’altro che raro: se dopo essersi dimesso il lavoratore decide di tornare sui propri passi, il datore di lavoro può riassumerlo? Oppure la scelta iniziale è definitiva e non lascia spazio a un eventuale ripensamento?
È una domanda che negli ultimi tempi, con la crescita della mobilità lavorativa e dei cambi di carriera repentini, si sente sempre più spesso. Per rispondere occorre analizzare vari livelli: le ragioni che hanno portato il dipendente a dimettersi, la disciplina normativa che regola il recesso volontario, il ruolo della volontà del datore di lavoro e persino la posizione dei contratti collettivi, senza dimenticare casi particolari come le dimissioni per giusta causa o il ripensamento prima del perfezionamento della procedura.
Perché il dipendente si era dimesso? Il contesto è importante
Le motivazioni che spingono un lavoratore a rassegnare le dimissioni volontarie sono molteplici e spesso non coincidono con un’unica causa. Nel 2025 il mondo professionale è diventato più fluido, più competitivo e più orientato alla ricerca di equilibrio personale. Per questo può capitare che una decisione presa in un certo momento, magari sotto pressione, sembri meno solida quando la situazione cambia.
Un dipendente può dimettersi per affrontare problemi familiari imprevisti, per tutelare la propria salute o per cogliere un’opportunità lavorativa estremamente allettante. Alcuni scelgono di trasferirsi all’estero, altri decidono di cambiare settore, altri ancora si trovano davanti a organizzazioni in cui non si riconoscono più. È interessante notare come nessuna legge imponga al lavoratore di comunicare al datore di lavoro le ragioni della propria scelta: la libertà di recedere dal contratto è piena e non richiede giustificazioni, al contrario di quanto accade per il licenziamento, che deve sempre poggiare su motivazioni chiare e oggettivamente verificabili.
La procedura di dimissioni richiede comunque attenzione e professionalità, sia per evitare errori formali, sia per preservare rapporti umani e professionali con l’azienda. Il primo passo è controllare i tempi di preavviso stabiliti dal proprio CCNL, che determinano l’ultimo giorno di lavoro. Il secondo è comunicare la decisione, preferibilmente dopo un confronto diretto con il proprio responsabile, così da mantenere un clima costruttivo fino alla conclusione del rapporto.
Il sistema telematico garantisce tutele sia al lavoratore, che può recedere in modo certo e documentato, sia al datore di lavoro, che grazie al preavviso può organizzare con maggiore serenità la sostituzione della risorsa uscente. Se il dipendente decide di non rispettare il preavviso, salvo i casi di giusta causa, l’azienda può applicare l’indennità sostitutiva, una cifra equivalente alla retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di lavoro non svolto. È una conseguenza prevista chiaramente dalla normativa e confermata costantemente dalla giurisprudenza.
Capire questo contesto aiuta a comprendere meglio ciò che accade dopo la cessazione del rapporto: perché a seconda del motivo delle dimissioni e di come è stato gestito il distacco, l’ipotesi di una riassunzione futura può essere più o meno realistica.
Il dipendente che si è dimesso può essere riassunto dallo stesso datore di lavoro?
La questione centrale è semplice: sì, un dipendente che si è dimesso può essere riassunto dal suo ex datore di lavoro. Ma per capire come ciò sia possibile, occorre distinguere due situazioni molto diverse.
La prima è quella in cui il lavoratore presenta le dimissioni tramite la procedura online e, nei sette giorni successivi, esercita la facoltà di revoca prevista dal Jobs Act e ancora pienamente valida oggi. La norma è chiara e verificabile sulla pagina del Ministero del Lavoro dedicata al recesso volontario. In questo caso, il rapporto di lavoro prosegue senza soluzioni di continuità e il datore di lavoro non può opporsi alla revoca, salvo situazioni specifiche e documentate.
La seconda situazione è quella della riassunzione vera e propria, cioè il caso in cui il rapporto precedente sia già terminato. In tale scenario l’azienda è libera di decidere se riaccettare l’ex dipendente, senza vincoli particolari. La legge, infatti, non pone alcun ostacolo alla possibilità di instaurare un nuovo contratto di lavoro tra le stesse parti. Se l’azienda ritiene che la risorsa sia preziosa, può richiamarla senza difficoltà, indipendentemente dal motivo delle precedenti dimissioni.
Esistono però alcune tutele a favore del lavoratore, che impediscono abusi. La riassunzione non può comportare un inquadramento inferiore rispetto a quello precedentemente acquisito, poiché la professionalità già maturata non può essere annullata. È possibile, invece, che il nuovo contratto preveda un livello superiore, soprattutto se nel periodo intercorso tra la cessazione e la riassunzione il dipendente ha maturato nuove competenze o esperienze rilevanti.
Un altro elemento importante riguarda il periodo di prova. Se il lavoratore viene riassunto per le stesse mansioni svolte in precedenza, non può essere costretto a ripeterlo. La giurisprudenza è costante: la prova serve a verificare capacità e idoneità e, nel caso di mansioni identiche, tale verifica è già stata superata. Se invece le nuove mansioni sono diverse, l’azienda può legittimamente prevedere una nuova prova.
Nel settore pubblico la situazione è leggermente diversa. Il Testo Unico sul Pubblico Impiego non vieta la riassunzione di un ex dipendente, ma la decisione non è automatica: l’amministrazione deve verificare la presenza di posti vacanti, i requisiti professionali e la coerenza con l’organizzazione interna. Anche in questo caso, però, riassumere è possibile.
Il particolare caso del ripensamento prima del termine delle dimissioni
Il ripensamento può avvenire addirittura prima che la procedura telematica sia completata. Finché le dimissioni non sono state formalizzate sul portale del Ministero, il rapporto di lavoro non si considera cessato. Se il lavoratore cambia idea all’ultimo momento, può dunque tornare al lavoro e proseguire l’attività.
Tuttavia, se il dipendente si assenta senza aver completato la procedura, l’azienda ha il diritto di contestare l’assenza ingiustificata. Nei casi più gravi, ciò può persino costituire motivo di licenziamento disciplinare. Ecco perché è fondamentale comunicare tempestivamente al datore di lavoro il proprio ripensamento: più rapido è il chiarimento, più è probabile evitare conseguenze.
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Dimissioni per giusta causa e nuova assunzione: ecco cosa dice la legge
Le dimissioni per giusta causa rappresentano una situazione completamente diversa. Sono regolate dall’art. 2119 del Codice Civile e permettono al lavoratore di interrompere immediatamente il rapporto senza preavviso, quando il comportamento del datore rende impossibile proseguire la collaborazione. I casi più frequenti includono il mancato pagamento dello stipendio, le molestie, le condotte vessatorie, il mancato versamento dei contributi o gravi violazioni degli obblighi contrattuali.
In questo scenario, oltre a non dover versare l’indennità sostitutiva del preavviso, il lavoratore ha diritto a ottenerla dall’azienda e può accedere alla NASpI se ricorrono i requisiti necessari.
Per sua natura, però, la giusta causa implica una rottura insanabile del rapporto fiduciario tra lavoratore e datore. Per questo la possibilità di una successiva riassunzione è estremamente improbabile. Non è giuridicamente vietata, ma nella pratica è quasi impossibile che una relazione lavorativa così compromessa possa essere ricostruita. Nella maggior parte dei casi, la vicenda sfocia in contenziosi, richieste risarcitorie e procedimenti giudiziari che rendono qualsiasi riavvicinamento del tutto irrealistico.
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