Cosa rischia chi fa troppe assenze per malattia? E qual è il limite massimo da non superare durante l’anno? Facciamo chiarezza.
Assentarsi dal lavoro per motivi di salute è un diritto riconosciuto a ogni lavoratore dipendente, purché la malattia sia certificata da un medico e comunicata correttamente secondo le procedure previste.
Questo diritto si traduce in una duplice tutela: da un lato, il riconoscimento di un’indennità economica a sostituzione dello stipendio, a carico dell’Inps e in parte del datore di lavoro; dall’altro, la garanzia di mantenere il proprio posto durante il periodo di assenza.
Tuttavia, come spesso accade in ambito lavorativo, i diritti non sono infiniti. Esiste infatti un limite massimo ai giorni, o meglio, ai mesi, di malattia che possono essere retribuiti nel corso dell’anno, così come esiste un confine oltre il quale il datore di lavoro è legittimato a interrompere il rapporto per prolungata malattia, anche se giustificata.
Molti lavoratori confondono queste due soglie, ma in realtà si tratta di limiti distinti. Il primo riguarda l’indennità Inps, che può coprire al massimo 180 giorni di malattia per ciascun anno solare. Il secondo è il cosiddetto periodo di comporto, ovvero il tempo massimo durante il quale il dipendente non rischia il licenziamento per malattia.
La durata di questo periodo varia in base al contratto collettivo applicato e spesso è influenzata anche dall’anzianità di servizio.
Per questo motivo, conoscere con precisione quanti giorni (o mesi) di malattia si possono fare, come vengono contati, cosa succede se si superano certi limiti e quali sono le implicazioni sul piano contrattuale e retributivo è fondamentale per evitare spiacevoli sorprese. In questa guida trovate tutte le risposte che cercate.
Fino a quando viene pagata la malattia nel 2025
Nel corso del 2025, il lavoratore dipendente che si assenta per malattia ha diritto a una retribuzione sostitutiva, erogata principalmente dall’Inps, a partire dal quarto giorno di assenza. I primi tre giorni, noti come periodo di carenza, non sono coperti, salvo diverse previsioni del contratto collettivo.
In molti Ccnl, infatti, è previsto che sia il datore di lavoro a farsi carico della retribuzione nei primi giorni di assenza o a integrare quella versata dall’Istituto, così da garantire al dipendente un trattamento il più vicino possibile allo stipendio ordinario.
L’indennità di malattia Inps copre una parte della normale busta paga e l’importo cresce con la durata dell’assenza. Nel dettaglio:
- dal 4° al 20° giorno di assenza è pari al 50% della retribuzione media globale giornaliera percepita dal lavoratore nel mese precedente all’inizio della malattia;
- dal 21° e fino al 180° giorno di assenza è pari ai 2/3 (ossia al 66,66%) della retribuzione media giornaliera.
Questo trattamento economico è garantito per un massimo di 180 giorni complessivi nell’anno solare. Il conteggio tiene conto di tutte le giornate di malattia, anche non consecutive, tra il 1° gennaio e il 31 dicembre. Una volta raggiunto questo limite, l’indennità di malattia non spetta più, né dall’Inps né dal datore di lavoro.
Per fare un esempio, un lavoratore assente per 7 mesi consecutivi da ottobre ad aprile potrebbe continuare a ricevere l’indennità per tutto il periodo se i 6 mesi non vengono interamente maturati nello stesso anno solare. Tuttavia, se si ammala nuovamente nello stesso anno dopo aver esaurito i 180 giorni, non avrà diritto ad alcuna retribuzione, anche se l’assenza è giustificata da un nuovo certificato medico.
Una distinzione importante riguarda i contratti a tempo determinato. In questi casi, la durata dell’indennità si calcola in base ai giorni lavorati nei 12 mesi precedenti. Nello specifico: il minimo è pari a 30 giorni, anche in presenza di meno di un mese di servizio, mentre il massimoè sempre di 180 giorni, raggiungibile solo se il lavoratore ha prestato servizio in modo continuativo per l’intero anno.
Ad esempio, chi ha lavorato per 4 mesi avrà diritto a circa 120 giorni di malattia indennizzabile, proporzionati alla durata dell’impiego.
Prima di concludere questa sezione è utile ricordare che nel computo dei 180 giorni indennizzabili non rientrano alcune voci, come ad esempio i periodi di congedo di maternità, le assenze legate allo stato di gravidanza, i giorni coperti da infortunio sul lavoro e le assenze dovute a malattie professionali.
Cosa succede dopo i 6 mesi di malattia?
Come chiarito, il limite dei 180 giorni di malattia rappresenta la soglia massima oltre la quale l’Inps cessa di corrispondere l’indennità economica al lavoratore. Da quel momento in poi, pur rimanendo assente per motivi sanitari validi e documentati, il dipendente non ha più diritto ad alcuna retribuzione, né dall’ente previdenziale né, salvo specifiche clausole contrattuali, dal datore di lavoro. Tuttavia, questo non significa che il lavoratore venga automaticamente licenziato.
Infatti, il diritto alla conservazione del posto di lavoro segue una logica diversa e fa riferimento a un concetto specifico del diritto del lavoro: il periodo di comporto.
Questo termine identifica il numero massimo di giorni di assenza per malattia che il dipendente può accumulare senza che il datore di lavoro possa procedere con il licenziamento. Superata questa soglia, l’azienda è legittimata a risolvere il contratto, anche in presenza di certificati medici regolari e patologie accertate.
Il periodo di comporto non è uguale per tutti: la sua durata varia in base al contratto collettivo nazionale di riferimento e, spesso, anche in base all’anzianità di servizio del lavoratore. È proprio per questo motivo che non può essere confuso con il limite dei 180 giorni indennizzati dall’Inps. È vero che in alcuni casi coincidono, ma più spesso il comporto è più lungo rispetto alla soglia economica.
Vediamo qualche esempio. Nel Ccnl Commercio, il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto per 180 giorni nell’anno solare, a cui possono aggiungersi fino a 120 giorni di aspettativa non retribuita. In presenza di patologie gravi certificate, può essere prevista anche una proroga fino a 12 mesi complessivi.
Nel Ccnl Metalmeccanici, il comporto è di 183 giorni di calendario per chi ha un’anzianità fino a 3 anni. La soglia si allunga per anzianità superiori: arriva a 9 mesi per chi è in azienda da oltre 3 anni e fino a 6, e a 12 mesi per chi ha più di 6 anni di servizio. In caso di evento morboso continuativo, il comporto può estendersi fino a 274 giorni.
Va anche ricordato che il licenziamento è comunque escluso entro il periodo di comporto, salvo che non intervengano altre cause legittime: ad esempio, una giusta causa disciplinare, oppure motivi economici oggettivi come la cessazione dell’attività d’impresa o un licenziamento collettivo.
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Cosa rischia chi prende troppi giorni di malattia (anche restando nei limiti)
Anche quando le assenze per malattia rientrano nei limiti fissati dalla legge o dal contratto collettivo, abusarne può comunque generare conseguenze, sia sul piano economico che su quello professionale. È importante sapere che, per quanto la malattia sia un diritto tutelato, il suo utilizzo ripetuto o percepito come eccessivo può minare il rapporto fiduciario tra dipendente e datore di lavoro.
Un lavoratore che si assenta frequentemente, magari per brevi periodi legati a malanni stagionali o patologie ricorrenti, non rischia il licenziamento immediato se resta entro i limiti del comporto, ma potrebbe subire svantaggi indiretti. Il datore di lavoro, ad esempio, potrebbe tener conto della frequenza delle assenze al momento di valutare eventuali promozioni, aumenti di stipendio o premi di produzione.
Questo rischio è alto soprattutto in ambienti lavorativi competitivi, dove la continuità e l’affidabilità vengono considerate elementi chiave per la crescita professionale. Non si tratta, dunque, di una violazione formale, quanto più di una percezione negativa che può influenzare il futuro lavorativo del dipendente all’interno dell’azienda.
La situazione è ancora più delicata per chi lavora con contratti a tempo determinato. In questi casi, pur esistendo la tutela nei primi 180 giorni di malattia (come visto sopra entro i limiti proporzionati alla durata del contratto), nulla impedisce al datore di lavoro di non rinnovare il rapporto alla scadenza. Un dipendente che si è assentato a lungo o con troppa frequenza potrebbe non essere confermato a tempo indeterminato, nonostante abbia rispettato le regole.
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