Il boom degli investimenti in AI sostiene gran parte della crescita americana, ma tra importazioni, mercati finanziari e leva nascosta il rischio non è nella produzione, bensì negli asset.
Il 2025 è diventato l’anno in cui la AI ha smesso di essere soltanto una promessa tecnologica per trasformarsi in una componente visibile dei conti economici degli Stati Uniti. La crescita del PIL nella prima metà dell’anno, secondo l’economista di Harvard Jason Furman, è stata trainata per oltre il 90% dagli investimenti in information processing: hardware, software e infrastrutture di data center che alimentano la corsa alla nuova intelligenza artificiale generativa.
Eppure, il dato solleva più interrogativi che entusiasmi. Se il 4% del PIL è responsabile quasi da solo della crescita, significa che gran parte dell’economia americana si muove a velocità ridotta. Il boom degli investimenti in AI rischia quindi di nascondere fragilità strutturali, soprattutto in settori tradizionali che non riescono a generare nuova produttività.
Un primo elemento critico riguarda la bilancia commerciale. Molti dei server, chip e componenti necessari a sostenere la crescita dei data center sono importati, riducendo l’impatto netto sulla ricchezza interna. L’AI spinge i numeri, ma non necessariamente la base industriale americana. [...]
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