Obbligo di repechage: licenziamento illegittimo senza prova dell’incollocabilità

Isabella Policarpio

09/10/2018

03/03/2022 - 12:50

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Nel diritto del lavoro, l’espressione “obbligo di repechage” indica il dovere del datore di lavoro di tentare una ricollocazione del lavoratore, all’interno dell’azienda, per evitarne il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Obbligo di repechage: licenziamento illegittimo senza prova dell’incollocabilità

Anche un contratto a tempo indeterminato non può scongiurare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Infatti, per esigenze legate alla struttura aziendale (come la necessità di chiudere o esternalizzare un ramo o settore), o per fronteggiare una crisi di mercato o per incrementare la produttività, il datore di lavoro è legittimato a licenziare un dipendente.

È l’articolo 41 della Costituzione a sancire il diritto di libertà dell’attività economica privata in virtù del quale il datore di lavoro ha la facoltà di licenziare un dipendente - anche con contratto di lavoro a tempo indeterminato - se lo ritiene necessario al fine di tutelare la propria attività economica improntata al guadagno.

Se da un lato il legislatore riconosce il diritto in capo al datore di lavoro di organizzare la propria attività come meglio crede, dall’altro prevede una serie di garanzie per il lavoratore dipendente che ne tutelano il posto di lavoro.

Tra queste compare l’obbligo di repechage, istituto che persegue la ratio di salvaguardare il posto di lavoro anche a scapito della posizione professionale del lavoratore dipendente. Vediamo cos’è e come si attua l’obbligo di repechage.

Ambito di applicazione dell’obbligo di repechage

L’espressione obbligo di repechage è strettamente connessa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ossia quello imposto da motivazioni economiche e di tipo aziendale.

Sappiamo che in questo caso il datore di lavoro può legittimamente licenziare un dipendente, ma, in caso di contestazione, dovrà provare la sussistenza delle ragioni economiche - ad esempio la necessità di un nuovo assetto aziendale - e l’impossibilità oggettiva di impiegare il dipendente licenziato in un’altra mansione.

Per approfondire, si rimanda alla nostra guida specifica nel quale vengono esplicitate le caratteristiche del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, le modalità di contestazione e le conseguenze del licenziamento illegittimo.

Ora che ne abbiamo tracciato i confini, veniamo ad approfondire le peculiarità dell’obbligo di repechage.

In cosa consiste l’obbligo di repechage?

Sull’argomento si è espressa la Corte di Cassazione - sezione Lavoro - con la sentenza n. 20436/2016, la quale definisce il licenziamento per giustificato motivo oggettivo l’extrema ratio e conferma la validità della cessazione del rapporto di lavoro solo se non esistono altre mansioni attribuibili al dipendente.

Ne consegue che se l’ex dipendente contesta la legittimità del licenziamento, il giudice è tenuto ad analizzare anche le assunzioni effettuate nel periodo immediatamente successivo o precedente al licenziamento in questione, al fine di valutare la concreta esistenza di altre mansioni disponibili all’interno dell’azienda.

La Corte, inoltre, sottolinea che l’obbligo di repechage vada attuato sempre nei limiti del rispetto dell’assetto organizzativo dell’azienda senza sconvolgerne l’organizzazione.

Dunque, repechage si, ma solo se esistono mansioni alternative.

Cosa si intende per mansioni alternative?

Citiamo a tal proposito la sentenza n. 3370/2016 del Tribunale di Milano:

“Le mansioni oggetto del repechage sono quelle appartenenti allo stesso livello e categoria legale di inquadramento del lavoratore.”

In realtà, al fine di salvaguardare il posto di lavoro, in difetto dei suddetti requisiti, il dipendente può essere ricollocato anche in mansioni appartenenti a livelli inferiori, purché le sue competenze professionali siano aderenti al nuovo assetto organizzativo aziendale.

Sul punto occorre fare alcune precisazioni:

  • quando il repechage riguarda mansioni dello stesso livello e categoria legale non è necessario il consenso del dipendente;
  • quando le mansioni appartengono ad un livello di inquadramento inferiore ma non viene modificata la categoria legale non occorre il consenso del lavoratore se si tratta di “una modifica degli assetti organizzativi che incide sulla posizione del lavoratore” (ex art. 2103 comma 2, c.c.). In poche parole, se cambiano le mansioni ma si conserva la categoria legale maturata (dirigente, quadro, impiegato, operaio);
  • quando il mutamento delle mansioni è significativo, dal punto di visto dell’inquadramento e della categoria legale, è obbligatorio il consenso espresso del lavoratore. Il datore di lavoro dovrà presentare un’offerta formale al dipendente prima di procedere con il licenziamento.

Onere probatorio: su chi ricade?

La giurisprudenza maggioritaria riconosce al solo datore di lavoro l’onere probatorio circa il rispetto dell’obbligo di repechage.

Si tratta di una prova negativa (l’inesistenza di altre mansioni attribuibili) e, come tale, può essere assolto anche con fatti presuntivi e indiziari.

Tale prova, ad esempio, può consistere nella produzione del Libro Unico del lavoro davanti al giudice con lo scopo di dimostrare che non ci sono state nuove assunzioni di personale nel periodo in esame, né nelle medesime mansioni del lavoratore licenziato né inferiori.

Altra prova può essere la produzione di un organigramma o funzionigramma aziendale che dimostri la concreta impossibilità di ricollocare il lavoratore senza alterare l’assetto organizzativo dell’azienda.

L’attribuzione dell’onere della prova in capo al datore di lavoro risponde all’esigenza di salvaguardare il dipendente, parte contrattuale debole, obbligando la parte datoriale a sostenere, con idonee prove e argomentazioni, la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo, ossia dell’impossibilità di rispettare l’obbligo di repechage e della tempestiva comunicazione della crisi aziendale al lavoratore dipendente.

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