Dipendente parla male del datore di lavoro, quando rischia il licenziamento?

Ilena D’Errico

20 Gennaio 2024 - 19:00

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Parlare male del datore di lavoro rappresenta un rapporto evidentemente compromesso e in alcuni casi comporta anche il licenziamento del dipendente. Ecco cosa prevede la legge.

Dipendente parla male del datore di lavoro, quando rischia il licenziamento?

A qualsiasi lavoratore dipendente può capitare di lasciarsi sfuggire qualche lamentela sull’azienda in cui lavora, sull’organizzazione o sullo stipendio. Nulla di grave, almeno finché le dichiarazioni corrispondono al vero e si utilizzano toni e lessico appropriati. Bisognerebbe, però, avere cura di moderare le affermazioni che possono screditare l’azienda o la figura del datore di lavoro.

Un danno simile può perfino portare al licenziamento, così come confermato anche dalla Corte di Cassazione in più occasioni. Prima di parlare male del datore di lavoro bisognerebbe fare più attenzione e non usare il pretesto del diritto di critica, assolutamente legittimo, per giustificare la diffamazione.

Si può parlare male del datore di lavoro?

Il dipendente può ovviamente avere uno sfogo con delle persone care e raccontare degli avvenimenti che lo hanno colpito e dare la sua opinione, qualunque sia, sull’attività lavorativa. Ciò che non si dovrebbe fare è diffondere queste critiche, specialmente quando non corrispondono a una narrazione oggettiva dei fatti ma contengono insulti, offese e accuse non documentate.

Chi ritiene che il datore di lavoro non rispetti i diritti dei dipendenti deve chiedere la giusta tutela nelle sedi opportune, intentando una causa civile, rivolgendosi ai rappresentanti sindacali o scegliendo la via - più soft - della mediazione. Altrimenti si rischia di passare dalla parte del torto (a prescindere dalle eventuali ragioni) e si va incontro a pesanti conseguenze, anche perché in gioco non c’è solo il posto di lavoro.

Il lavoratore dipendente ha come qualsiasi altro essere umano il diritto di critica riconosciuto dagli articoli 21 e 39 della Costituzione e può legittimamente esercitarlo anche per parlare del suo lavoro, dell’azienda o del datore. Questo diritto si manifesta con la libertà di esprimere la propria opinione su dei fatti, acconsentendo o dissentendo.

Il diritto di critica deve comunque avere una finalità divulgativa, un interesse collettivo, e non essere un mero mezzo per denigrare il datore di lavoro. Chiaramente, è più facile rientrare nei limiti quando si restituisce un’immagine positiva della persona, mentre accostandola a qualità disonorevoli la differenza si fa più sottile.

La legge non dice che non si può parlare male del datore di lavoro. È possibile farlo se le proprie affermazioni si basano su dati effettivi e comprovati, senza utilizzare toni denigranti, rispettando il decoro, la reputazione e l’immagine (pure morale) del datore di lavoro e dell’attività. Limiti che, peraltro, valgono anche per il datore di lavoro nei confronti del dipendente.

Quando si rischia il licenziamento

Da orientamento consolidato della Corte di Cassazione possiamo affermare che parlare male del datore di lavoro in modo pubblico (o comunque rivolgendosi a più persone) attribuendogli qualità riprovevoli, utilizzando toni offensivi e riferendosi a fatti disonorevoli e non comprovati, dà atto al licenziamento.

Il datore di lavoro può legittimamente applicare delle sanzioni disciplinari per questo comportamento, compreso il licenziamento per giusta causa. Queste azioni, infatti, non solo rompono il rapporto di fiducia ma possono anche integrare il reato di diffamazione.

Si citano, in particolare, l’ordinanza del 22 dicembre 2023 e la sentenza n. 27939/2021 della Corte di Cassazione. Entrambe hanno giudicato legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che ha parlato male del datore di lavoro e dei vertici aziendali sui profili social aperti al pubblico. Ciò non sarebbe accaduto se la comunicazione fosse stata limitata e privata o se le pubblicazioni avessero avuto a oggetto fatti comprovati e toni consoni.

Bisogna comunque sottolineare che l’applicabilità della sanzione disciplinare non ha nulla a che vedere con la fattispecie penale. Anche se non si configura diffamazione (o ingiuria) il licenziamento è legittimo perché il dipendente non ha a cuore l’immagine aziendale e si infrange così la base del rapporto di lavoro. La sanzione è applicabile quando c’è un attacco alle qualità morali, professionali e personali, non quando si discute di un contenuto oggettivo (o provato), sebbene con toni accesi.

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