Il pessimismo è ormai una scorciatoia per la rispettabilità intellettuale. Ecco perché.
L’unico politico di primo piano che ho seguito e che sembrava del tutto privo di demoni psicologici è stato David Cameron. Le Home Counties inglesi producono in serie gente come lui, che ama il claret, dice “hullo!” e dorme bene. Era anche, più o meno, il più intelligente. Questo si basa su un insieme di dati: i risultati accademici, le testimonianze dei funzionari pubblici e ciò che sono riuscito a osservare. Nessuno ha difficoltà a credere al primo punto, riguardo alla sua vivacità. (Che però è sconfinata in una compiacenza imperdonabile, da cui la Brexit.) Il secondo punto, invece, lascia più perplessi. Comunque, torniamo a questo dopo.
Prima: perché oggi tutti sembrano così pessimisti? L’epidemia di solitudine, la perdita di lavoro causata dall’IA, la dipendenza da smartphone, il burnout: sono solo le preoccupazioni del momento, connotate in senso liberale. La destra, che un tempo si vantava della propria joie de vivre o almeno di un certo umorismo nero alla PJ O’Rourke, oggi parla di guerra civile. Se ci fosse un rigore dietro a tutto questo pessimismo, d’accordo, ma il mondo è migliorato in modi misurabili — secolarmente se non di anno in anno — per tutto il tempo in cui chi legge è stato vivo.
Quel successo è di per sé parte della risposta, ovviamente. Una società che si preoccupa della dipendenza da smartphone ha già risolto la maggior parte dei problemi. Questo è sviluppo avanzato: l’Occidente è come una famiglia che discute sugli interessi degli interessi di un capitale che dà per scontato. L’incubo dell’IA, ricordiamolo, è che una tecnologia sia troppo efficiente. [...]
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