Chiamata alle armi, ecco chi parte se l’Italia entra in guerra

Simone Micocci

29 Settembre 2025 - 12:46

Cosa succede se l’Italia entra in guerra? Ecco chi verrebbe chiamato alle armi e in quali casi verrebbe ripristinato l’obbligo di leva.

Chiamata alle armi, ecco chi parte se l’Italia entra in guerra

In Europa - e non solo - cresce la paura per una possibile Terza guerra mondiale che coinvolgerebbe anche l’Italia, visto che i venti di conflitto provenienti dalla Russia si fanno sempre più minacciosi nei confronti dei Paesi dell’Est e della stessa Nato.

La tensione internazionale è arrivata al punto che alcuni governi hanno evocato l’articolo 4 del Trattato Atlantico, che prevede la consultazione tra alleati in caso di minaccia alla sicurezza. Non siamo ancora all’articolo 5, che invece sancirebbe un intervento militare diretto dell’Alleanza in caso di aggressione armata, ma il clima resta rovente.

In questo scenario, cresce l’apprensione dei cittadini che temono una possibile guerra in Italia o comunque un coinvolgimento diretto del nostro Paese in un conflitto su larga scala. A tal proposito, la domanda che si fa sempre più frequente è cosa comporterebbe una chiamata alle armi e chi verrebbe chiamato in guerra in Italia.

È utile chiarire subito che la chiamata alle armi non significa un arruolamento obbligatorio di massa, come invece accadeva in passato con la leva militare. Oggi, infatti, il servizio è volontario e un’eventuale mobilitazione seguirebbe regole precise, stabilite dal Codice dell’ordinamento militare. Proprio per questo, anche il periodico aggiornamento delle liste di leva, che i Comuni completano entro il 31 marzo di ogni anno, non ha alcun legame con le tensioni internazionali né con una mobilitazione immediata: si tratta semplicemente di un adempimento burocratico che la legge prevede ancora, nonostante la sospensione della leva.

Va inoltre fatta una distinzione tra il caso in cui la guerra interessasse direttamente il nostro territorio oppure se dovesse prevedere solamente la partecipazione delle nostre truppe in un altro Paese.

Nel dettaglio, se l’Italia entrasse in guerra fuori dai propri confini, sarebbero impegnate le Forze Armate e i militari già arruolati, inclusi eventuali riservisti. Se invece la guerra arrivasse in Italia, con un’aggressione diretta sul nostro territorio, scatterebbero procedure straordinarie che potrebbero portare al richiamo di ex militari e, solo in casi estremi, al ripristino della leva obbligatoria.

L’Italia può entrare in guerra?

Visto quanto stabilito dall’articolo 11 della Costituzione, l’Italia non può mai ricorrere a un intervento bellico per offendere la libertà degli altri popoli, o come mezzo di risoluzione dei conflitti.

Una tale disposizione, tuttavia, non esclude la chiamata alle armi nel caso in cui sia necessario difendere il Paese da una minaccia esterna. Un’aggressione sul nostro territorio, dunque, farebbe immediatamente scattare l’offensiva delle nostre Forze Armate, con l’Italia che di fatto entrerebbe in guerra.

Una probabilità che a oggi, guardando anche agli equilibri geopolitici, sembra non essere più così remota come qualche tempo fa.

Chi dovrebbe andare in guerra?

Guardiamo a cosa dice un altro articolo della Costituzione, il 52, di cui il comma 1 recita:

La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.

Una disposizione che di fatto sta a significare che è comunque un dovere primario per il cittadino, al di sopra di tutti gli altri, intervenire per la difesa della Patria. Ma questo vuol dire che bisognerà intervenire attivamente, anche imbracciando le armi, qualora l’Italia dovesse entrare in guerra? Non proprio. Il secondo comma del suddetto articolo, infatti, recita:

Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici.

Il servizio militare, dunque, è “obbligatorio” da Costituzione, la quale tuttavia rimanda alla legge la definizione di “limiti” e “modi”. Ed è proprio la legge – la n°226 del 23 agosto 2004 – che ha eliminato quest’obbligo, introducendo disposizioni recanti la “sospensione anticipata del servizio obbligatorio di leva e disciplina dei volontari di truppa in ferma prefissata, nonché delega al Governo per il conseguente coordinamento con la normativa di settore”.

Oggi, dunque, il reclutamento nelle Forze Armate è volontario, e avviene tramite le nuove figure dei Volontari in ferma iniziale (Vfi, ferma triennale) e successivamente i Volontari in ferma triennale (Vft), che hanno sostituito i precedenti Vfp1 e Vfp4, ormai in regime transitorio.

Per quanto riguarda il servizio di leva, l’Istituto viene regolato dal Codice dell’ordinamento militare (d.lgs. 66/2010), mentre il D.P.R. 90/2010 ne disciplina gli aspetti applicativi. Per capire se l’obbligo di leva, con la relativa chiamata alle armi, potrebbe essere ripristinato in caso di guerra, possiamo fare riferimento a quanto spiegato dall’articolo 1929 del Codice militare, recante disposizioni per la “sospensione del servizio obbligatorio di leva e ipotesi di ripristino”.

Nel dettaglio, qui nel primo comma si legge che “le chiamate per lo svolgimento del servizio obbligatorio di leva sono sospese a decorrere dal 1° gennaio 2005”.

Tuttavia, come spiega il secondo comma, il servizio di leva potrebbe anche essere ripristinato - con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri - “qualora il personale volontario in servizio sia insufficiente e non sia possibile colmare le vacanze di organico in funzione delle predisposizioni di mobilitazione”.

Ma chi verrebbe richiamato alle armi? La “chiamata” riguarderebbe “il richiamo in servizio di personale militare volontario cessato dal servizio da non più di cinque anni”.

E in quali casi ci sarebbe una tale chiamata? Gli eventi che porterebbero al ripristino dell’obbligo di leva sono i seguenti:

  • se è deliberato lo stato di guerra ai sensi dell’articolo 78 della Costituzione;
  • se una grave crisi internazionale nella quale l’Italia è coinvolta direttamente o in ragione della sua appartenenza a un’organizzazione internazionale giustifica un aumento della consistenza numerica delle Forze Armate.

Nel suddetto articolo viene anche specificato - nel terzo comma - che neppure nei suddetti casi sarebbe possibile chiamare, per colmare le vacanze di organico, gli appartenenti alle Forze di Polizia a ordinamento civile (Polizia di Stato, Polizia penitenziaria e Polizia locale) e al Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco. Questi, dunque, sarebbero esclusi dalla chiamata alle armi.

Sarebbero, invece, chiamati alle armi tutti gli appartenenti alle Forze Armate (Esercito, Marina e Aeronautica) e alle Forze di Polizia a ordinamento militare (Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza), così come coloro che hanno ormai cessato il servizio presso uno dei suddetti corpi ma da meno di 5 anni.

È possibile rifiutare la chiamata in guerra?

Chi quindi decide di tentare la carriera militare è bene che sia informato su una tale possibilità: qualora l’Italia dovesse prendere parte a un conflitto armato, non ci si potrà opporre a una eventuale chiamata.

Proprio per il carattere volontario dell’arruolamento, infatti, non sarebbe neppure possibile invocare l’obiezione di coscienza. Quest’ultima, infatti, è prevista solo in relazione al vecchio servizio di leva obbligatorio, oggi sospeso, e non per i militari che hanno scelto di arruolarsi.

Gli unici casi in cui ci si potrebbe rifiutare sono quelli in cui lo stato di salute del militare non permetta di andare in guerra: si pensi, ad esempio, al militare gravemente ammalato, come pure al caso della militare in gravidanza.

L’esercito dei riservisti

Negli ultimi mesi è tornata al centro del dibattito politico la proposta di istituire anche in Italia una riserva militare, composta da ex militari e volontari da affiancare alle Forze Armate in caso di emergenza. Un’idea che non è nuova: già una legge del 2022 prevedeva la creazione di una riserva ausiliaria, mai però attuata nei tempi previsti.

L’iniziativa è stata rilanciata dal ministro della Difesa Guido Crosetto, che ha ribadito come i riservisti non servano per “fare la guerra”, ma per fornire supporto alla Difesa in scenari eccezionali.

La questione ha però acquisito ulteriore rilevanza con la presentazione di una nuova proposta di legge da parte del presidente della Commissione Difesa della Camera, Nino Minardo, affiancata da un testo analogo del deputato Stefano Graziano (Pd): due iniziative che potrebbero essere presto unificate.

Alla base di questa accelerazione c’è una constatazione: il numero di militari in servizio, per quanto preparati e dediti, non è sufficiente rispetto alle sfide che il Paese potrebbe trovarsi ad affrontare. Da qui l’idea di costituire una riserva, sul modello già attivo in altri Paesi, che garantisca un bacino di personale addestrato da mobilitare in tempi rapidi.

La riserva, che potrebbe arrivare a contare almeno 10.000 unità, sarebbe formata da ex militari congedati senza demerito che aderirebbero su base volontaria. I riservisti dovranno garantire reperibilità costante, partecipare a periodici corsi di addestramento (almeno due settimane l’anno) e sottoporsi a controlli medici annuali, così da assicurare la piena idoneità psicofisica del personale. Potrebbero essere inclusi anche ex appartenenti alle Forze dell’ordine.

In caso di emergenza, come una dichiarazione di guerra, una grave crisi internazionale o uno stato di emergenza nazionale deliberato dal Consiglio dei ministri, i riservisti potrebbero essere richiamati alle armi per affiancare le Forze Armate, con compiti che spaziano dal supporto logistico alle attività di cooperazione civile-militare.

Il riferimento potrebbe essere il modello austriaco, dove i riservisti percepiscono circa 6.000 euro l’anno con obbligo di addestramento per almeno 30 giorni e un impegno continuativo di 5 anni. Anche in Italia si ipotizza una durata quinquennale prorogabile, con una retribuzione che dovrà rendere attrattiva l’adesione.

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