Buste paga, attenzione al taglio del 7,5%: cosa fare per evitarlo?

Simone Micocci

11 Luglio 2023 - 17:11

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L’Ocse conferma la svalutazione degli stipendi in Italia: scende il salario reale a causa dell’inflazione.

Buste paga, attenzione al taglio del 7,5%: cosa fare per evitarlo?

Non servirà il salario minimo, come più volte sostenuto dal governo in carica, ma un problema stipendi in Italia c’è e l’inflazione non ha fatto altro che renderlo ancora più rilevante.

Ne dà conferma l’Ocse con il report annuale Employment outlook 2023, con il quale viene messo alla luce il calo dei salari reali registrato in Italia negli ultimi 12 mesi. Un dato che si è dimostrato ben peggiore rispetto a quello degli altri Paesi europei, confermando che non bastano misure come il taglio del cuneo fiscale per contrastare la perdita del potere d’acquisto delle retribuzioni.

Bisogna agire alla fonte, facendo sì che le aziende aumentino gli stipendi e mettendole nelle condizioni di farlo. Misure estemporanee, che tra l’altro riguardano solamente gli stipendi sotto un certo importo (2.692 euro), come il taglio del cuneo fiscale servono infatti a dare solamente un po’ di respiro, rimandando un problema che prima o poi andrà affrontato.

È difficile, infatti, che ogni anno avremo a disposizione 10 miliardi di euro per confermare lo sgravio contributivo e alleggerire il cuneo fiscale, tant’è che già per la sua applicazione nel 2024 ci sono dei dubbi a riguardo.

In Italia c’è un problema stipendi

Che l’Italia abbia un problema legato agli stipendi è confermato dal rapporto Employment outlook 2023 dell’Ocse che analizza le retribuzioni dal punto di vista del salario reale, ossia quel rapporto che c’è tra il salario monetario (quindi quanto effettivamente guadagnato in busta paga) e il livello dei prezzi.

Ebbene, a causa dell’elevata inflazione registrata nel 2022, al 31 dicembre scorso i salari reali risultavano calati del 7%. Una discesa che non è fermata nel primo trimestre di quest’anno, quando è stato registrato un calo su base annua del 7,5%.

In particolare considerando solamente i lavoratori tutelati dalla contrattazione collettiva, i salari reali sono diminuiti del 6%. Il che fa riflettere, anche perché in Italia solo una piccola parte di lavoratori non è coperto dalla contrattazione collettiva. Ciò conferma che questa, da sola, non può essere la soluzione a tutti i mali del mercato del lavoro italiano.

La colpa è dell’inflazione

La ragione di questo calo è da imputare all’inflazione, ossia alla componente prezzi. Con il salario monetario che di fatto è rimasto immutato, infatti, è ovvio che l’aumento del quoziente ha portato a una svalutazione del salario reale.

Oggi, quindi, lo stipendio ha un potere d’acquisto inferiore al 7,5% rispetto al passato e anche nei prossimi anni, quando l’inflazione dovrebbe rallentare, non sono previsti stravolgimenti.

Anzi: se per i salari nominali è prevista una crescita del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, per quanto riguarda l’inflazione il tasso atteso è rispettivamente del 6,4% e 3%. Dunque, ancora per un altro anno dovremo aspettarci una svalutazione, per poi registrare un parziale recupero - comunque non sufficiente per compensare la perdita registrata in questi anni - dello 0,5%.

E bisogna sottolineare che il calo del salario minimo non è un evento straordinario. Se si tiene conto degli ultimi 30 anni, ossia dal 1990 al 2020, ne risulta un salario minimo già diminuito di circa il 3% (il 2,9% per l’esattezza). E nel mentre, Paesi come Germania e Francia, registravano un aumento di oltre il 30%.

L’inflazione è un problema principalmente per il lavoratore

Si potrebbe sentenziare che così come il lavoratore, anche le aziende pagano le conseguenze dell’inflazione.

Dal report Ocse, infatti, ne risulta che i profitti crescono comunque di più rispetto al costo del lavoro. Ed è così anche in Italia, seppure in misura inferiore di altri Paesi più virtuosi, come Germania, Spagna e Polonia.

Come confermato da Andrea Garnero, economista Ocse, oggi potremmo definire l’inflazione come una “tassa che le imprese sono riuscite a traslare valle e i lavoratori no”.

Quale soluzione?

Sempre Garnero spiega che se l’Italia vuole davvero puntare sulla contrattazione collettiva deve trovare il modo per potenziarla. Come spiegato al Corriere della Sera, infatti, è necessario che anche in Italia possa esserci un meccanismo che rinnova gli stipendi con un intervallo di tempo più basso rispetto a quanto avviene oggi.

Ricordiamo, infatti, che in Italia i contratti collettivi scadono ogni tre anni e che molte volte i rinnovi vengono effettuati persino dopo. E non è una situazione che riguarda solamente il settore privato, in quanto è così anche nel pubblico.

In altri Paesi, vedi Francia (ogni anno) e Germania (ogni due) i rinnovi, e di conseguenza l’adeguamento dei salari al costo della vita, sono molto più frequenti.

L’unica soluzione è “trovare un modo per suddividere equamente gli oneri dell’inflazione tra tutti gli attori”; servirà sedersi intorno a un tavolo ed è importante che “tutti ne escano perdenti”, così da dividere “in modo equo l’onere dell’aumento dei prezzi generato dal rialzo a monte delle materie prime”.

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