Un’analisi svela che la bolla dell’AI è quattro volte più grande della crisi del 2008. Tutta colpa di hype eccessivo, troppi investimenti e una crescita non sostenibile.
Secondo una nuova analisi della società di ricerca indipendente MacroStrategy Partnership, la corsa agli investimenti nell’intelligenza artificiale (AI) ha generato una bolla finanziaria quattro volte più grande della crisi dei mutui subprime del 2008 e ben 17 volte più ampia rispetto alla bolla dot-com dei primi anni 2000.
La società di consulenza mette in guardia il settore: il mercato dell’AI ha superato i limiti di sostenibilità economica, alimentato da anni di denaro a basso costo, politiche monetarie espansive e aspettative spesso irrealistiche. Sebbene l’AI resti una tecnologia con potenzialità rivoluzionarie nel lungo periodo, l’entusiasmo irrazionale e la speculazione potrebbero aver spinto il mercato al di sopra dei suoi fondamentali reali.
Come dimostrato in passato dalle bolle speculative, una correzione è possibile – se non inevitabile – con effetti che potrebbero estendersi ben oltre il settore tecnologico.
Una bolla gonfiata da stimoli e hype
Il rapporto, citato da MarketWatch, si basa sulla teoria dell’economista svedese Knut Wicksell, secondo cui il capitale si alloca in modo efficiente solo quando il tasso d’interesse reale è almeno due punti superiore alla crescita nominale del PIL. Questo equilibrio, spiegano gli analisti, è venuto meno per oltre 10 anni, con tassi d’interesse artificialmente bassi, stimoli monetari senza precedenti (come quelli durante la pandemia di COVID-19) e un’ondata di investimenti in settori ad alto rischio - dall’AI all’immobiliare, dalle criptovalute al venture capital.
Secondo MacroStrategy, i colossi tecnologici noti come le “Magnifiche 7” - Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet (Google), Meta (Facebook), Nvidia e Tesla - hanno avuto un ruolo centrale nel gonfiare questa bolla, poiché mantengono il controllo sul mercato attraverso posizioni monopolistiche, strategie contabili poco trasparenti (come l’ammortamento ritardato delle GPU o la vendita di servizi cloud in cambio di azioni) e tagliando personale o qualità del servizio senza perdere utenti. “Un comportamento impensabile in un mercato davvero competitivo”, scrivono gli esperti.
Modelli linguistici di grandi dimensioni sotto esame
I modelli linguistici di grandi dimensioni (Large Language Model, LLM), alla base della rivoluzione dell’AI generativa, iniziano anch’essi a mostrare i primi segnali di crisi. Uno studio interno ha rivelato che, nelle aziende software, la percentuale di compiti completati efficacemente grazie all’AI oscilla tra appena l’1,5% e il 34%. E i risultati migliori non sono ripetibili in modo coerente, il che mina l’affidabilità degli strumenti.
A questo si aggiungono problemi legali (soprattutto in materia di copyright), scarsa chiarezza normativa, costi infrastrutturali elevatissimi e una base utenti ancora troppo ristretta e non profittevole. Alcuni dei clienti più attivi consumano risorse di calcolo per valori ben superiori a quelli coperti dai loro abbonamenti mensili.
L’adozione dell’AI rallenta
Dati forniti dall’economista Torsten Slok del fondo d’investimento Apollo indicano che il tasso di adozione dell’AI nelle grandi aziende è in calo, dopo una fase iniziale di entusiasmo. In parte, questo è dovuto ai limiti tecnologici: ChatGPT-3 costava circa 50 milioni di dollari, ChatGPT-4 ne è costati 500 milioni, mentre ChatGPT-5 – il cui costo è stimato in 5 miliardi – non mostra miglioramenti significativi rispetto al suo predecessore.
Un altro elemento critico è la scalabilità: i modelli non solo richiedono risorse sempre più imponenti, ma i concorrenti riescono a raggiungere rapidamente le stesse capacità, una capacità che va a erodere eventuali vantaggi competitivi legati alla tempistica o al prezzo.
Il caso Nvidia: chi guadagna davvero?
Secondo MacroStrategy, Nvidia è al momento il principale beneficiario del boom dell’AI. I suoi chip sono fondamentali per l’addestramento e l’esecuzione dei modelli di intelligenza artificiale. Tuttavia, gli analisti avvertono: potrebbe trattarsi solo di un modo per «guadagnare tempo» mentre gli insider scaricano titoli a prezzi elevati, prima che il mercato corregga e buona parte dell’ecosistema tecnologico inizi a perdere soldi.
Non va sottovalutato, inoltre, l’impatto macroeconomico di questo fenomeno: Nvidia, da sola, contribuirebbe oggi a circa il 3% del PIL nominale degli Stati Uniti. Se si dovesse verificare un nuovo shock tecnologico simile a quello del 2001, l’economia statunitense – già fragile – rischierebbe di scivolare in una recessione profonda, con conseguenze politiche potenzialmente gravi.
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