Per un’altra finanza: ForexInfo.it intervista Andrea Baranes

Simone Casavecchia

14/05/2014

04/06/2014 - 13:19

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Le crisi europea e globale sono state e sono tuttora crisi di natura finanziaria che non accennano a risolversi per il ruolo patologico della finanza

Per un’altra finanza: ForexInfo.it intervista Andrea Baranes

Andrea Baranes (Roma, 1972), dopo gli studi in Ingegneria Chimica, si è avvicinato al mondo dell’economia e ha lavorato come consulente d’impresa, per l’ottenimento di contributi e finanziamenti nel campo della ricerca e dell’innovazione per poi arrivare a coordinare tra il 2002 e il 2003, la Campagna “Questo Mondo Non È In Vendita”, promossa da associazioni e organizzazioni no profit.

È stato membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione BankTrack e Socio Fondatore e Segretario Generale dell’Associazione Human Rights Culture, per la promozione dei diritti umani mediante l’arte e l’organizzazione di mostre. Ha lavorato presso la Campagna per la riforma della Banca mondiale (CRBM), in qualità di responsabile per le campagne su banche private e finanza internazionale.

Attualmente presiede la Fondazione Culturale Responsabilità Etica ONLUS – Gruppo Banca Etica, per attività di ricerca sui temi dell’economia e della finanza e dirige l’Osservatorio Finanza, un sito di informazione critica sul mondo bancario e finanziario. È anche uno dei due portavoce della coalizione Sbilanciamoci!.

Tra le sue ultime pubblicazioni: Per qualche dollaro in più. Come la finanza casinò si sta giocando il pianeta, Datanews, 2011; Il grande gioco della fame. Scommetti sul cibo e divertiti con la finanza speculativa, Altraeconomia, 2011; Finanza per indignati, Ponte alle Grazie, 2012 e “Dobbiamo Restituire fiducia ai mercati”. Falso!, Laterza, 2014.

Partiamo da quel che succede a casa nostra. Sembra che lo spettro della crisi voglia essere a tutti i costi mandato in soffitta a suon di timidi segnali di ripresa, piccoli bonus in busta paga e deregulation del mercato del lavoro. A suo modo di vedere l’Italia sta uscendo dalla crisi?
Dei segnali di ripresa ci sono, dagli USA in cui cala il tasso di disoccupazione all’Europa, anche se in misura minore. Resta da capire se e quanto l’Italia sarà in grado di agganciare tale ripresa. I segnali al momento, guardando i dati su produzione, PIL, disoccupazione, non sono certo incoraggianti. Sopratutto, anche un’eventuale ripresa partirebbe da una situazione drammatica. Solo per citare un dato, dallo scoppio della crisi è stato perso il 25% di produzione industriale. Bisognerebbe probabilmente rimettere in discussione lo stesso termine di “crisi” che rimanda a un evento di rottura e di breve durata. Nella situazione attuale e dopo anni di recessione sarebbe più opportuno parlare di un vero e proprio cambiamento strutturale dell’insieme dell’economia. Se anche la crescita del PIL dovesse seguire le proiezioni del governo, non è comunque pensabile una qualche “uscita dalla crisi” ripartendo sulle stesse basi. Le recenti decisioni del governo, inoltre, sembrano volere impostare la “ripresa” unicamente in un’ottica di competitività, andando di fatto a ridurre i costi del lavoro in un pericolosissimo inseguimento delle economie emergenti invece di finanziare la ricerca, e rilanciando i consumi e non investimenti di lungo periodo.

L’orizzonte più immediato a cui guarda il governo Renzi, oltre alle elezioni europee, è il semestre europeo di presidenza italiana. Crede che l’Italia sarà in grado di mettere in campo proposte innovative nelle politiche comunitarie?
Al momento il governo non sembra volere sfruttare il semestre di presidenza per rimettere in discussione le politiche europee, a partire dal Fiscal Compact e dai vincoli che prevede. Al limite la richiesta è quella di escludere gli investimenti dal computo del deficit o altre poste che difficilmente permetteranno un cambio di rotta. Questo malgrado i risultati a dire poco deludenti delle politiche seguite negli ultimi anni. Non solo gli impatti sociali e sul mondo del lavoro sono devastanti, ma in Italia, come in altri Paesi europei, l’austerità sta portando anche a un aumento del famigerato rapporto debito / PIL che si voleva diminuire. Ormai persino il FMI ha riconosciuto che, in particolare in situazione di recessione, tagli alla spesa pubblica spesso portano a una diminuzione del PIL superiore a quella del debito e hanno quindi effetti pro-ciclici. Su questo aspetto non sembra però che il governo italiano voglia giocare un ruolo da protagonista. Con uno slogan, il ritornello “è l’Europa che ce lo chiede” non viene rimesso in discussione, mentre probabilmente dovremmo essere noi “a chiederlo all’Europa”.

Tralasciando le considerazioni politiche, l’ultima riunione del board della BCE si è chiusa con un nulla di fatto, riguardo alla variazione dei tassi di interesse, con un probabile rinvio a Giugno. Le politiche economiche della BCE stanno solo rassicurando i mercati?
Le politiche della BCE hanno sicuramente avuto un impatto sui mercati, e in particolare su quello dei titoli di Stato, a partire dalla famosa dichiarazione di Draghi sul fare “tutto il necessario” per salvare l’euro, che ha rapidamente portato a una diminuzione degli spread. Oggi però il problema centrale dell’UE sembra essere il rischio di una deflazione, una situazione nella quale si trovano di fatto già diversi Paesi europei. Anche in Italia, se un’inflazione minima c’è ancora, questa è dovuta principalmente all’aumento delle accise, ovvero a un intervento diretto del governo. Siamo però ben al di sotto dell’1%, a fronte di un obiettivo della BCE del 2%. Questo ha ripercussioni dirette e pesanti sui Paesi con un forte debito pubblico, quindi sull’Italia in particolare. Per questo le politiche ipotizzate dalla BCE dovranno adesso puntare a fare risalire l’inflazione. Sta di fatto che, al di là di manovre che hanno rassicurato i mercati, al momento tali politiche non sembrano essere state efficaci a fare ripartire l’economia. La BCE ha prestato oltre 1.000 miliardi di euro all’1% alle banche europee, quelle italiane ne hanno presi circa 250 miliardi ma nel nostro Paese perdura il credit crunch.

Lei ha spiegato a più riprese e in più occasioni che questa crisi è di natura prettamente finanziaria e che la finanza ormai ha perso la sua funzione più propria, quella di strumento dell’economia, per mettere in atto una dittatura che tiranneggia l’economia e, a seguire, la politica. Può chiarire sinteticamente ai lettori di ForexInfo.it i capisaldi della sua teoria?
Quanto accennato è un esempio dell’attuale andamento in ambito finanziario. Le banche italiane hanno preso 250 miliardi di euro dalla BCE, ma tale liquidità non si traduce in maggiore erogazione di credito alle imprese e alle famiglie. Al contrario, le banche hanno utilizzato tali somme in massima parte per acquistare titoli di Stato e in altre operazioni sui mercati finanziari. Se c’è stato un qualche effetto positivo per lo spread, di fatto moltissime imprese sono strangolate dalla mancanza di accesso al credito, il che acuisce le loro difficoltà in una fase recessiva. Tali difficoltà portano a un aumento delle sofferenze bancarie, che hanno ormai superato l’8% in Italia, e l’aumento delle sofferenze porta le banche a chiudere ulteriormente i rubinetti del credito. E’ una spirale che si auto-alimenta, mentre in parallelo le attività bancarie si spostano ulteriormente in ambito finanziario. Un esempio che mostra come la finanza tenda a diventare autoreferenziale, ovvero in ultima analisi un fine in sé stesso per fare soldi dai soldi e non uno strumento al servizio delle attività economiche. Tale distorsione diventa ancora più evidente andando a vedere altri ambiti. I derivati, nati come strumenti assicurativi, sono oggi utilizzati in ben oltre il 90% dei casi come scommesse meramente speculative, che esasperano instabilità e volatilità dei prezzi. Tale sistema finanziario ipertrofico e scollegato dalla cosiddetta “economia reale” condiziona pesantemente l’economia e le politiche economiche di governi e istituzioni.

Recentemente il Financial Times, dopo l’FMI e, ancor prima, il movimento Positive Money, è tornato a sostenere l’importanza una riforma monetaria che tolga alle banche private il diritto di cartolarizzare la moneta, ovvero di creare prodotti finanziari da rivendere sui mercati, per concedere prestiti. La BCE ha il potere, e la volontà, di mettere in atto un intervento del genere?
Non è detto che la proposta, ripresa dal “Chicago Plan” degli anni ’30 del secolo scorso, che chiedeva di obbligare le banche ad un 100% di riserve sui depositi, sia fattibile e in caso possa avere degli impatti positivi in particolare nel riallineare economia e finanza. Le recenti prese di posizione di FMI e Financial Times, sicuramente non accusabili di ostracismo nei confronti della finanza, segnalano però con forza l’esistenza di un problema non più aggirabile, ovvero il fatto che le banche private di fatto oggi creano il 95% della moneta circolante. Gli eccessi del modello originate to distribute, in cui le banche cartolarizzano i propri crediti per rivenderli sul mercato, non ha portato a una suddivisione del rischio tra gli investitori, ma a una sua moltiplicazione, come è purtroppo diventato evidente con l’esplosione della bolla dei mutui subprime e il rapido contagio all’intero sistema finanziario globale. Anche in questo caso cambiare rotta implicherebbe una forte volontà politica, non solo della BCE ma dell’insieme di istituzioni europee. Una volontà che al momento non sembra davvero esserci.

La BCE ha sempre messo in atto l’acquisto dei titoli bancari per fronteggiare la crisi. Cos’altro dovrebbe fare per rimettere in moto l’economia reale?
Le proposte sono diverse, e vanno da forme di quantitative easing ad altre ancora. A differenza della FED, per Statuto la BCE non può acquistare titoli di Stato dei Paesi in difficoltà, se non in misura limitata e unicamente sul mercato secondario, come ha fatto ultimamente. Un intervento più diretto necessiterebbe quindi di una revisione dei trattati europei. Altre proposte chiedono che la BCE diventi “prestatore di ultima istanza”, nuovamente un ruolo ricoperto da molte altre banche centrali ma non da quella europea. Di fatto il problema attuale dell’UE è unicamente in parte ascrivibile alle singole decisioni di politica economica e monetaria, e in buona parte alla stessa architettura istituzionale. Esiste un’unica banca centrale e un’unica politica monetaria, mentre i singoli Stati sono chiamati a gestire autonomamente i propri debiti pubblici. Per rimediare almeno in parte a tale paradosso una proposta è quella di emettere dei titoli europei (i cosiddetti eurobond) per aiutare i Paesi in maggiore difficoltà. Si tratterebbe anche di un passo per rimediare a un ulteriore “peccato originale” dell’Europa: Paesi diversissimi tra di loro per forza economica, disoccupazione, tasso di inflazione sono legati alla stessa moneta, in assenza di adeguati meccanismi compensativi su scala europea.

In uno dei sui ultimi interventi (www.sbilanciamoci.info) Lei ha ricordato come all’indomani della crisi del 1929, negli USA, alcuni economisti avessero già intuito l’importanza di abolire le riserve frazionarie, imponendo alle banche di avere la totalità delle riserve sui depositi e riservando il potere di creare nuova moneta alle banche centrali. Al momento attuale quali sono gli strumenti di politica monetaria in grado di regolarizzare la deriva finanziaria dell’economia?
Gli strumenti oggi sono limitati. Negli anni successivi alla crisi del ’29, Keynes descrisse la cosiddetta trappola della liquidità, in base al quale non basta immettere denaro nell’economia se poi questo non circola ma viene accantonato come risparmio, con una celebre metafora: puoi portare un cavallo al fiume ma non puoi obbligarlo a bere. Negli ultimi anni tutte le banche centrali hanno “portato il cavallo al fiume”, ovvero immesso liquidità nel sistema, ma è poi molto difficile “farlo bere”, ovvero fare in modo che tale liquidità si traduca in crediti alle imprese e alle famiglie, investimenti, rilancio dell’economia. Alcune banche centrali (in particolare la Banca d’Inghilterra) hanno provato a vincolare alcuni prestiti a bassissimo tasso di interesse al sistema bancario all’erogazione di credito alle imprese. Tentativi che rimangono però assolutamente insufficienti per fare si che la moneta immessa nel sistema non rimanga “incastrata” in circuiti puramente finanziari ma arrivi a imprese e cittadini. I possibili indirizzi politici sarebbero diversi: uno di incentivi, rendendo in qualche modo più convenienti le attività economiche rispetto a quelle finanziarie (pensiamo ad esempio all’utilizzo della leva fiscale); un altro più coercitivo, bloccando alcune operazioni tramite l’adozione di regole per contrastare le attività più dannose. Al di là di queste o altre possibili misure, quello che è certo è la necessità di richiudere uno scollamento sempre più evidente e pericoloso tra l’economia e una finanza che dovrebbe teoricamente essere al suo servizio.

Al di là delle scelte della politica e delle banche centrali, Lei ha spesso sottolineato nei suoi interventi l’importanza delle scelte dei cittadini stessi, come strumento di contrasto della finanza. Può spiegare ai nostri lettori questa sua posizione?
Se da un lato occorre pensare a delle politiche pubbliche e all’introduzione di alcune regole per riportare la finanza a essere uno strumento al servizio dell’economia, dall’altro è altrettanto importante una riflessione sull’uso del nostro denaro. I maggiori investitori sono banche, fondi pensione e di investimento, assicurazioni, tutti soggetti che si alimentano del risparmio dei cittadini, ma sui quali abbiamo solitamente un’influenza pressoché nulla. I miei soldi, una volta depositati su un conto corrente o affidati a un gestore finanziario, stanno alimentando l’economia del territorio e creando posti di lavoro o al contrario esasperano l’instabilità e provocano crisi delle quali io stesso sono successivamente vittima? Abbiamo il diritto e per molti versi il dovere di esigere una piena trasparenza sull’uso del nostro denaro e di pretendere che questo sia impiegato per finalità coerenti con il sistema economico che auspichiamo.

Qual è la differenza che si può determinare aprendo un conto corrente in un istituto come Banca Etica, piuttosto che impiegare i propri guadagni in un fondo obbligazionario?
Le differenze tra Banca Etica e una banca “tradizionale” sono diverse, a partire appunto dalla completa trasparenza sull’uso del denaro. Banca Etica è l’unica in Italia a pubblicare sul proprio sito l’elenco completo dei finanziamenti erogati alle persone giuridiche, con il dettaglio dell’importo e altre caratteristiche. I finanziamenti vanno unicamente ad alcuni settori ben definiti e con ricadute positive sulla società e l’ambiente: dalla cooperazione internazionale alle energie rinnovabili, dal sociale alla cultura ad altre ancora. Anche grazie alla completa trasparenza, alla fiducia tra richiedente e banca e alla valutazione degli impatti non economici delle attività economiche, i risultati sono ottimi: una banca in crescita anche negli anni della crisi, e i cui progetti sostengono forme di “buona economia”. I risparmi affidati a Banca Etica sono quindi utilizzati unicamente per prestiti e fidi, e non sono utilizzati sui mercati finanziari. Dieci anni fa la stessa Banca Etica ha creato una società di gestione del risparmio, Etica Sgr, che è una società separata e che opera sui mercati finanziari ma seguendo gli stessi principi: una completa trasparenza, il rifiuto di attività speculative (dai derivati a prodotti strutturati), la valutazione sociale e ambientale di tutti i titoli – sia delle imprese, sia degli Stati – nei quali si investe, tramite un processo di selezione che coinvolge tanto società specializzate quanto un comitato etico indipendente, prima del CdA di Etica Sgr. Come per Banca Etica, anche in questo caso i risultati sono ottimi, non solo dal punto di vista ambientale e sociale ma prima ancora economico, in termini di risultati e di crescita anche in questi anni di crisi. Una conferma che la finanza etica è un modello efficace e una risposta concreta a molte delle attuali distorsioni e problemi della finanza “tradizionale”.

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