Proteste in Iran: manifestanti contro il regime. Motivi e conseguenze della rabbia della popolazione
Nuove proteste in Iran infiammano uno scenario già complesso nella Repubblica Islamica. L’ammissione di colpa dell’abbattimento del Boeing ucraino da parte dei missili iraniani - e il silenzio sulla verità per almeno 3 giorni - hanno fatto esplodere la rabbia dei cittadini contro le massime autorità.
Il quadro della crisi si fa sempre più intricato a Teheran, mettendo in evidenza difficoltà e tensioni radicate all’interno del grande Stato sciita. Questa volta, infatti, i manifestanti non bruciano bandiere statunitense e non invocano slogan contro l’amministrazione Trump.
L’indignazione dei giovani scesi in piazza già sabato scorso, 11 gennaio, è tutta rivolta alle alte autorità del forte regime iraniano. Si sono riaccese, quindi, le proteste contro l’intero sistema interno che già erano scoppiate a novembre.
Cosa significa questo segnale per la stabilità di Teheran e, soprattutto, per gli equilibri di tutto il Medio Oriente? Le proteste in Iran di questo fine settimana sono un ulteriore elemento destabilizzante, da tenere in stretta considerazione.
Proteste in Iran: manifestanti contro il regime. Che succede?
L’unità nazionale visibile nella immensa folla di commemorazione per l’uccisione del generale Qassem Soleimani da parte degli USA sembra un ricordo. Le immagini più recenti dell’Iran, infatti, raccontano di giovani arrabbiati contro le massime cariche dello Stato.
La scintilla che ha fatto esplodere nuovamente la rabbia è stata la tardiva ammissione di responsabilità - ammessa come errore umano - dell’abbattimento del Boeing ucraino da parte dei missili del regime. A nulla sono valse le scuse ufficiali e la promessa da parte del Presidente Hassan Rohuani di indagare più a fondo sull’accaduto.
Già da sabato 11 gennaio, e poi ancora nella giornata di domenica, giovani si sono radunati davanti all’università Amir Kabir, dove molte persone iraniane morte nell’esplosione dell’aereo abbattuto avevano studiato. Inoltre, la folla si è ritrovata a piazza Azadi, scontrandosi contro la polizia carica di lacrimogeni.
Ci sarebbero stati episodi di repressione da parte delle forze schierate contro i manifestanti, richiamando alla memoria le proteste scoppiate in Iran a novembre scorso. In quel caso, i manifestanti avevano iniziato una lotta contro la situazione economica opprimente del Paese. La risposta era stata una repressione violenta, con circa 300 morti e il sospetto di gravi violazioni dei diritti umani.
Anche oggi, come tre mesi fa, la piazza di Teheran sta invocando un cambiamento di rotta al regime. Il bersaglio non sono i nemici esterni, Stati Uniti in primis, ma la Guida suprema in persona, Ali Khamenei e il Presidente Hassan Rohuani.
Si chiedono dimissioni delle alte cariche e referendum costituzionale, per cambiare un sistema politico, religioso ed economico non più sostenibile, soprattutto per le giovani generazioni. Sono stati urlati anche slogan di disprezzo nei confronti delle Guardie della Rivoluzione.
Rabbia a Teheran: quali conseguenze?
L’Iran in fiamme a livello interno è una novità cruciale. A febbraio ci saranno le elezioni legislative nella Repubblica Islamica e bisognerà capire se Rohuani vorrà smorzare il clima interno con concessioni, soprattutto a livello economico, o esacerbare le tensioni con la politica della violenta repressione.
Intanto, le nuove sanzioni imposte da Trump alla nazione sciita potrebbero ingigantire la già evidente crisi economica, in parte causata anche dai blocchi alle esportazioni di petrolio imposti anni fa dagli USA.
Le manifestazioni contro il regime stanno anche consegnando un vantaggio alla Casa Bianca: il Presidente statunitense si è già schierato a favore della piazza, richiamando i leader politici e religiosi iraniani a stare attenti alle proprie mosse, soprattutto in termini di violazioni dei diritti umani.
Le proteste in Iran potrebbero essere una carta a favore degli USA, da sempre contro il regime sciita. E, allo stesso tempo, aumentare l’ostilità delle autorità iraniane in chiave anti-Stati Uniti, spingendo per la realizzazione di armi nucleari.
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