Primo maggio, ma quale festa dei lavoratori: i più deboli ancora sfruttati

Simone Micocci

01/05/2021

Primo maggio 2021, festa dei lavoratori: ma i dati non sorridono all’Italia. Tra lavoro nero, impieghi sottopagati e diritti non riconosciuti, siamo ancora lontani dall’idea di una Repubblica che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro.

Primo maggio, ma quale festa dei lavoratori: i più deboli ancora sfruttati

Oggi, sabato 1° maggio, è la Festa dei lavoratori. Una ricorrenza che assume particolare importanza nel nostro Paese, dove il lavoro viene persino riconosciuto dalla Costituzione come uno dei principi fondamentali: dall’articolo 1 - “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” - all’articolo 4 “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, vi è un ampio riconoscimento dell’importanza del lavoro nella nostra società.

Eppure, nonostante i passi avanti fatti negli ultimi anni per la promozione di questo diritto, sono ancora molti i lavoratori che vengono sfruttati. E purtroppo spesso succede a coloro che appartengono alle fasce più deboli della popolazione, a coloro che per necessità sono disposti ad accettare un lavoro a qualsiasi condizione.

Nell’ultimo periodo ho ascoltato la storia personale di centinaia di persone, spesso in difficoltà economica nonostante abbiano un posto di lavoro. Persone che per lavorare sono state costrette ad accettare le condizioni imposte dal proprio datore, senza un contratto e con un orario di lavoro oltre quello consentito dalla normativa.

Primo maggio, ma quale festa dei lavoratori: i più deboli ancora sfruttati

Nel libro Il Capitale, Karl Marx indica con il termine “industriale di riserva” quella massa di disoccupati di un’economia capitalista che è funzionale all’esistenza stessa del sistema capitalistico. La presenza di tanti disoccupati, infatti, alimenta la concorrenza tra gli operai e garantisce un basso livello di salari. E così è anche oggi, specialmente adesso che la pandemia ha portato alla perdita di molti posti di lavoro, 945 mila in un anno secondo i dati Istat.

La presenza di così tanti disoccupati mette in una posizione di forza il datore di lavoro, il quale - potendo contare di una platea ampia di potenziale forza lavoro - può imporre al dipendente le sue condizioni, puntando sul fatto che questo ha necessità di lavorare e quindi difficilmente si opporrà.

Ho ascoltato molte persone costrette a lavorare in nero. “Costrette” sì, perché salvo determinati casi - in cui si preferisce questa forma - irregolare - di lavoro per poter beneficiare nel contempo dei sostegni statali come NASpI, pensione d’invalidità e Reddito di Cittadinanza, la maggior parte delle persone vorrebbero un contratto che le tuteli.

Gli ultimi dati disponibili dicono che in Italia ci sono oltre 3,3 milioni di occupati in nero: e di chi è la colpa? Le sanzioni ci sono, i controlli meno. Quello Stato che dovrebbe “riconoscere a tutti i cittadini il diritto al lavoro”, permette che ancora oggi ci siano più di 3 milioni di persone che non sono tutelate.

Personalmente ne conosco un centinaio di persone che lavorano in nero: immagino che anche per voi sia così. Basterebbe poco, ma serve che ci sia anche la volontà politica, per disinnescare questo fenomeno: potenziare i controlli.

Chi sono i più sfruttati?

Non è solo il lavoro nero l’unica forma di sfruttamento. Un altro problema grave, infatti, è quello del lavoro cosiddetto “grigio”, ossia per coloro che pur essendo di fatto regolarmente contrattualizzati, lavorano a condizioni differenti rispetto a quelle previste dal contratto.

Si pensi, ad esempio allo stage. Il tirocinio di fatto non è vista come un’attività di lavoro subordinato ed è per questo motivo che deve sottostare ad un regolamento rigido, ad esempio sul monte ore settimanale. Ebbene. ci sono datori di lavoro che colgono questa opportunità per risparmiare sull’assunzione, facendo poi lavorare la persona per più ore rispetto a quelle consentite (a parità di retribuzione) e senza affiancamento di un tutor (ricordiamo, infatti, che il tirocinio è finalizzato alla formazione del lavoratore).

E ancora: datori di lavoro che assumono con contratto part-time e poi fanno lavorare con orario full-time. Ma anche: ferie non concesse, permessi mai pagati e straordinari non riconosciuti. Anche quando c’è un contratto non è detto che tutti i diritti vengano tutelati. Perché l’unica possibilità per il dipendente in quel caso è di denunciare, ma la denuncia vorrebbe anche dire perdere quel posto di lavoro di cui si ha tanta necessità.

Insomma, chi si trova in una condizione economica più agiata può permettersi di rifiutare un lavoro a determinate condizioni, chi invece ha estremo bisogno di uno stipendio - ad esempio per mandare avanti la famiglia - si trova costretto ad accettare pur di lavorare. E a non denunciare qualora non gli vengano riconosciuti dei diritti.

Vale per i giovani, appunto sfruttati attraverso il tirocinio, ma anche per chi è più avanti con l’età: persone che pur lavorando da decine di anni non hanno mai avuto un regolare contratto di lavoro, con l’impossibilità quindi di avere mai una pensione. Indipendentemente dall’età c’è appunto un fattore che accomuna queste persone: il bisogno di lavorare, che spesso - per colpa di aziende poco serie, ma anche di chi non le controlla - si traduce nell’impossibilità di far valere i propri diritti.

Oggi, Primo maggio 2021, lo voglio dedicare a loro: a chi non ha voce, a chi oggi sta lavorando e non gli verrà riconosciuto il lavoro festivo in busta paga, a chi pur di mandare avanti la propria famiglia è costretto ad accettare qualsiasi condizione per un impiego neppure troppo sicuro.

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