Pensioni, brutte notizie in arrivo: perché il governo Meloni scontenta tutti (o quasi)

Simone Micocci

1 Dicembre 2022 - 14:29

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Cosa ha fatto la legge di Bilancio 2023 per le pensioni? Ecco perché sono molte le critiche nei confronti del governo Meloni, almeno per le novità sul piano previdenziale.

Pensioni, brutte notizie in arrivo: perché il governo Meloni scontenta tutti (o quasi)

Pensioni, è arrivato il momento di analizzare le novità introdotte dalla legge di Bilancio 2023.

Poco prima della caduta del governo Draghi, Matteo Salvini aveva promesso “barricate” in caso di ritorno integrale alle regole fissate dalla legge Fornero. In quel periodo le voci su cosa sarebbe successo alle pensioni nel 2023 riguardavano perlopiù la conferma di Opzione donna e dell’Ape sociale come misure di flessibilità, e non era in programma alcun taglio alla rivalutazione (che tra l’altro era stata anticipata parzialmente di qualche mese).

Poi c’è stata la crisi di governo e in campagna elettorale non sono mancate delle promesse ambiziose agli elettori: da chi, come Silvio Berlusconi, ha parlato di un aumento delle pensioni minime fino a 1.000 euro a chi, come lo stesso Salvini, ha di nuovo tirato in ballo la riforma Fornero promettendone il superamento, ad esempio permettendo a tutti di andare in pensione con Quota 41.

Ora che la legge di Bilancio è pronta e bollinata, possiamo vedere cosa effettivamente è stato fatto dal governo Meloni. Ci sono stati passi avanti, come era stato garantito, oppure no? Da un primo sguardo potrebbe sembrare di sì: c’è l’aumento delle pensioni minime, la conferma dell’Ape sociale e la nuova Quota 103 che consentirà di andare in pensione a 62 anni. Ma d’altra parte c’è anche la proroga di Opzione donna con una serie di paletti che ne riducono notevolmente la platea delle beneficiarie, come pure il taglio al meccanismo della rivalutazione che riguarderà 3 milioni di assegni.

Ecco perché il bilancio delle novità introdotte dalla manovra sul fronte pensioni non può dirsi soddisfacente, ragion per cui non mancano le polemiche a riguardo.

Quota 103 per anticipare la pensione: ma per quante persone?

La novità più importante introdotta dalla legge di Bilancio 2023 riguarda l’introduzione della cosiddetta Quota 103. Va detto che si era partiti dalla promessa di una Quota 41 - così da consentire a tutti di andare in pensione, indipendentemente dall’età, una volta maturati 41 anni di contributi - per poi arrivare a una forma di pensionamento che consente sì di andare in pensione con 41 anni di contributi, ma solo al compimento dei 62 anni di età.

Tant’è che chi sperava nell’estensione (oggi possono accedervi solamente alcuni precoci) di Quota 41 è rimasto molto deluso dalla nuova misura, palesando il proprio scontento soprattutto sui social network.

Di fatto, Quota 103 si rivolge a un numero limitato di lavoratori: 50.000 secondo le stime dell’Inps, ma i paletti introdotti - come il divieto di riprendere a lavorare prima dei 67 anni - potrebbero ridurre ulteriormente la platea di coloro che vi ricorreranno.

Senza contare poi che chi vi accederà sono persone per le quali l’accesso alla pensione non è molto lontano. Già oggi, infatti, esiste la possibilità di smettere di lavorare, indipendentemente dall’età anagrafica, con 42 anni e 10 mesi di contributi, 41 anni e 10 mesi nel caso delle donne.

Di quanto aumentano le pensioni minime?

In legge di Bilancio 2023 si legge anche di un aumento delle pensioni minime ulteriore rispetto a quello previsto dalla rivalutazione. Viene stabilito, infatti, che gli assegni inferiori al minimo godranno di un aumento ulteriore dell’1,5%: di fatto, si tratta di un incremento di poco più di 8 euro al mese, 104 euro per l’intero 2023.

Ovviamente meglio poco che niente, ma va detto che per finanziare una tale misura, come pure per la suddetta Quota 103, il governo Meloni ha previsto dei tagli importanti, che stanno facendo molto discutere.

La “proroga” di Opzione donna

Fino a oggi Opzione donna ha consentito alle lavoratrici di andare in pensione all’età di 58 anni, 59 anni nel caso delle autonome, a fronte di 35 anni di contributi. Il tutto accettando che l’assegno di pensione venga ricalcolato interamente con il sistema contributivo, il che ne comporta inevitabilmente una penalizzazione.

A Opzione donna nel 2022 hanno potuto accedere solamente le lavoratrici che ne hanno raggiunto i requisiti entro il 31 dicembre 2021. Ragion per cui si sperava in una proroga, tra l’altro già assicurata dall’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando, che consentisse anche alle nate nel 1964 di poter accedere a tale misura.

La proroga di Opzione donna è arrivata, ma la platea ne viene notevolmente ridotta tant’è che per la maggior parte delle nate nel 1964 accedervi sarà un miraggio.

Viene confermato il requisito contributivo di 35 anni, ma allo stesso tempo quello anagrafico viene portato per tutte, quindi tanto per le lavoratrici subordinate che per le dipendenti, a 60 anni, con la possibilità di ridurlo di un anno, fino ad arrivare a 58 anni, per ogni figlio. E non è tutto: perché viene aggiunto un ulteriore requisito, in quanto - così come per l’Ape sociale - viene stabilito che la lavoratrice debba far parte anche di una tra le seguenti categorie:

  • caregiver (chi assiste un disabile grave da almeno 6 mesi);
  • invalide almeno al 74%;
  • licenziate da aziende in crisi, per le quali resta valido il requisito anagrafico di 58 anni anche in assenza di figli.

Questi requisiti, soprattutto la parte che vincola l’accesso alla misura ad alcune categorie, riducono sensibilmente la platea di chi vi accederà, tant’è che secondo le stime si parla di poche migliaia di lavoratrici.

Tagli agli assegni

Ma il sacrificio non è stato solo per Opzione donna. A pagare per la riforma delle pensioni sono infatti anche 3 milioni di persone che devono fare i conti con il taglio alla rivalutazione per gli assegni che superano di 4 volte il valore della pensione minima, quindi circa 2.100 euro.

La legge di Bilancio 2023, infatti, rivede le aliquote di rivalutazione portandole dalle attuali tre (100%, 90% e 75%) a:

  • al 100% del tasso di rivalutazione per gli assegni d’importo inferiore alle 4 volte il trattamento minimo;
  • al 80% del tasso di rivalutazione per gli assegni tra le 4 e le 5 volte il trattamento minimo;
  • al 55% del tasso di rivalutazione per gli assegni tra le 5 e le 6 volte il trattamento minimo;
  • al 50% del tasso di rivalutazione per gli assegni tra le 6 e le 8 volte il trattamento minimo;
  • al 40% del tasso di rivalutazione per gli assegni tra le 8 e le 10 volte il trattamento minimo;
  • al 35% del tasso di rivalutazione per gli assegni superiori alle 10 volte il trattamento minimo.

Sopra i 2.100 euro, quindi, scatterà una rivalutazione solo parziale e ciò comporterà tagli nei confronti di 3 milioni di assegni. E sarà così non solo per il 2023, quando il tasso di rivalutazione è stato accertato al 7,3%, ma anche per il 2024. E più è alta la pensione e più si fa importante la cifra a cui bisognerà rinunciare: 18 euro al mese per chi prende 2.500 euro lordi di pensione, 73 euro per chi ne prende 4.000 euro e 175 euro in caso di pensione intorno ai 6.000 euro.

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