Shein finisce nel mirino di Greenpeace. L’associazione accusa il colosso del fast fashion cinese di immettere sul mercato abbigliamento altamente inquinante e pericoloso per salute e ambiente.
A pochi giorni dal Black Friday, Greenpeace Germania riporta l’attenzione sulle pratiche di Shein con un’indagine che riapre un capitolo mai realmente chiuso. Il nuovo rapporto “Shame on you, Shein!” (“Vergognati, Shein!”) ha rivelato che circa un terzo dei 56 capi analizzati dall’organizzazione ambientalista contiene sostanze chimiche pericolose oltre i limiti stabiliti dal Regolamento europeo per le sostanze chimiche (REACH). Secondo Greenpeace, i risultati dell’indagine sarebbero “preoccupanti”, soprattutto perché riguardano anche vestiti per bambini.
Già nel 2022 Greenpeace aveva pubblicato un’analisi che denunciava la presenza di sostanze tossiche nei capi del colosso cinese del fast fashion. All’epoca Shein aveva ritirato gli articoli incriminati e promesso un miglioramento della gestione delle sostanze chimiche. Tuttavia, le nuove analisi mostrano che “i prodotti segnalati nei test precedenti riappaiono in forma quasi identica, con le stesse sostanze pericolose”, come afferma Greenpeace.
Greenpeace lancia l’allarme: ci sono “inquinanti eterni” nei capi Shein
Nel dettaglio, i test hanno rilevato la presenza di ftalati e PFAS, le sostanze note come “inquinanti eterni”, caratterizzate da resistenza all’acqua e alle macchie ma associate a effetti gravissimi sulla salute umana. Il comunicato ricorda che questi composti sono correlati a un maggiore rischio di cancro, disturbi riproduttivi, problemi di crescita e indebolimento del sistema immunitario.
Ma il rischio non riguarda solo i consumatori. Anche i lavoratori delle filiere produttive e gli ecosistemi dei Paesi in cui gli abiti vengono realizzati sono esposti a contaminazioni che possono persistere per decenni. Una volta lavati o smaltiti, gli indumenti rilasciano fibre e residui chimici in grado di penetrare nel suolo, nei fiumi e persino all’interno della catena alimentare.
“Shein rappresenta un sistema guasto”
Il giudizio dell’associazione ambientalista è duro: “Shein rappresenta un sistema guasto di sovrapproduzione, avidità e inquinamento”, ha dichiarato Moritz Jäger-Roschko, esperto di economia circolare di Greenpeace.
Secondo l’organizzazione, il modello produttivo dell’e-commerce cinese - basato sulla vendita di centinaia di migliaia di articoli a prezzi bassissimi e con un ritmo di immissione sul mercato senza precedenti - spinge a un consumo compulsivo che ignora ogni criterio di sostenibilità. Jäger-Roschko avverte che il Black Friday porterà “questa follia del fast fashion all’estremo”, mentre la persistenza delle sostanze tossiche nei capi dimostrerebbe che “l’autoregolamentazione volontaria è inutile” e che servono “leggi anti-fast fashion vincolanti”.
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Numeri in crescita e impatti ambientali sempre più pesanti
Shein continua a registrare numeri impressionanti. Con oltre 360 milioni di visite mensili, è il sito di moda più visitato al mondo. L’offerta supera costantemente il mezzo milione di modelli, venti volte più ampia rispetto a quella di H&M.
Il suo fatturato è passato da 23 miliardi di dollari nel 2022 a 38 miliardi nel 2024, mentre le emissioni sono quadruplicate in tre anni. Greenpeace ricorda inoltre che l’82% delle fibre utilizzate da Shein è in poliestere, una plastica derivata dai combustibili fossili. A questo si aggiungono multe milionarie e accuse di sfruttamento delle scappatoie doganali, oltre a frequenti violazioni delle norme europee sulla sicurezza chimica.
La necessità di una legge contro l’ultra fast fashion
Per Greenpeace l’unica soluzione è adottare una regolamentazione più rigida. Il modello citato è quello della Francia, che ha introdotto una tassa sul fast fashion, vietato la pubblicità per i marchi dell’ultra fast fashion e promosso politiche per l’economia circolare nel tessile.
L’organizzazione chiede che la legislazione UE sulle sostanze chimiche venga applicata a tutti i prodotti venduti nel mercato europeo, comprese le piattaforme online. In questo ipotetico quadro regolatorio, i marketplace dovrebbero essere ritenuti legalmente responsabili di eventuali violazioni e, in caso di inosservanze ripetute, le autorità possono sospendere l’attività dei siti.
Solo così, conclude Greenpeace, si potrà “proteggere la salute dei consumatori e gli ecosistemi di tutto il mondo”, frenando una spirale produttiva che rischia di diventare incontrollabile.
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