Uscire dall’euro: conviene davvero? Quanto costerebbe ai paesi europei più deboli?

Nicola D’Antuono

13 Dicembre 2013 - 06:28

La moneta unica sembra sia ormai diventata il capro espiatorio di tutti i mali dell’Europa. Ma conviene realmente uscire dall’euro? Se sì, quanto costerebbe?

Uscire dall’euro: conviene davvero? Quanto costerebbe ai paesi europei più deboli?

La grave crisi economica in Europa sta favorendo la nascita di pericolosi sentimenti anti-europei, che si stanno già tradotti nella creazione di partiti di estrema destra e sinistra in grado di ottenere forti consensi tra gli elettori. Ormai in quasi tutti i paesi europei sta crescendo il populismo e con esso i proseliti di un’idea ben precisa: uscire dall’euro per riappropriarsi della sovranità economica e monetaria. In effetti è proprio qui che si gioca la partita decisiva dell’euro. Finora i policy maker continentali hanno seguito probabilmente la ricetta anti-crisi sbagliata (o comunque quella che fa più male alla popolazione), cercando di guarire i guai della vecchia Europa con misure di eccessiva austerità provocando recessione, disoccupazione record e disordini sociali.

Il fiscal compact, varato nel bel mezzo della crisi dell’euro per risollevare le sorti di un intero continente in balia della speculazione finanziaria, ha stabilito norme molto severe sul contenimento del debito pubblico e del deficit di bilancio. L’idea di dover raggiungere il pareggio di bilancio entro determinate scadenze è stata però abbandonata da tempo dai paesi anglosassoni. Lo stesso Giappone ha capito che per crescere è fondamentale sostenere l’economia con politiche monetarie ultra-espansive: non solo tassi bassi, ma anche costanti iniezioni di liquidità. Gli Stati Uniti seguirono la ricetta anti-crisi del pareggio di bilancio dopo il crack del 1929, ma non fecero altro che aggravare la situazione generando quella che poi è passata alla storia come la Grande Depressione degli anni ’30.

Gli USA tornarono a crescere quando applicarono le teorie keynesiane per rilanciare occupazione, consumi e investimenti attraverso forti interventi pubblici di sostegno all’economia. La prima potenza economica mondiale sembra aver imparato la lezione anche nell’era contemporanea. Dopo il crack dei mercati del 2008, l’America di Obama ha messo in campo enormi misure di stimolo monetario e fiscale. In pochi anni il paese è tornato a crescere con buoni ritmi, la disoccupazione è scesa sui livelli più bassi degli ultimi 5 anni, il mercato immobiliare è ripartito e le borse americane sono salite su livelli mai visti in passato nella storia dei mercati finanziari. In Europa, invece, ha vinto l’immobilismo, con politiche economiche di matrice teutonica orientate a un focus quasi ossessivo sul rigore dei conti pubblici e sul contenimento dell’inflazione.

L’Europa, nonostante i recenti miglioramenti da un punto di vista prettamente finanziario (normalizzazione del mercato obbligazionario e buona crescita delle borse), non ha fatto grossi progressi sul fronte macroeconomico. A pagare il prezzo più alto delle dolorose politiche di austerità, imposte indirettamente dalla Germania, sono stati i paesi della periferia europea, in particolare Grecia, Portogallo, Italia e Spagna. Uscire dall’euro potrebbe non essere la soluzione più appropriata, ma solo a patto di cambiare lo statuto della BCE. L’Eurotower dovrebbe avere pieni poteri per fare ciò che hanno fatto finora le altre banche centrali, ovvero sostenere l’economia iniettando liquidità nel sistema. La Germania non dovrebbe essere d’accordo, ma a questo punto sarebbe auspicabile rompere solo con Berlino piuttosto che l’intera Europa.

Oggi i mercati hanno concesso una tregua al Vecchio Continente, ma non sarà così all’infinito. L’ombra della recessione aleggia ancora sul cammino della difficile ripresa dei paesi europei, la disoccupazione è da record e il debito di alcuni Stati resta su livelli poco sostenibili nel lungo termine. Se non si rafforza il processo di integrazione europea (ma non solo con l’unione bancaria), molti paesi più deboli rischiano di essere travolti dalla necessità di uscire realmente dall’euro per tornare a respirare e tenere a freno il malcontento fortemente in crescita della popolazione. Ma uscire dall’euro è davvero possibile? In effetti le soluzioni potenzialmente praticabili sarebbero solo due: ritorno alle monete nazionali per tutti i paesi e fine dell’eurozona; oppure la creazione di due aree monetarie in Europa (una per i paesi del Sud e un’altra per quelli del Nord, anche se si parla della possibilità di mantenere l’euro per i paesi del Nord con contestuale uscita e ritorno alle monete nazionali per i paesi della periferia).

Secondo molti economisti l’uscita dall’euro avverrà solo in caso di clamoroso break-up dell’eurozona (quindi tutti i paesi tornano alle monete nazionali). Ma quanto costerebbe uscire dall’euro? Le stime fatte dagli esperti spesso non sono convergenti tra loro. L’opinione più accreditata è quella di costi enormi per quasi tutti i paesi. Nel breve termine, oltre a una rovinosa caduta del pil e delle borse, si assisterebbe a un deciso aumento della disoccupazione (centinaia di migliaia di posti di lavoro persi in paesi come Italia, Spagna e Francia). Inoltre, l’inflazione rischierebbe di tornare a galoppare in doppia cifra, accompagnata da un forte deprezzamento della moneta nazionale dopo la rottura dell’euro. Per l’Italia il ritorno alla lira potrebbe essere ancor più traumatico.

Olte ad avere una moneta svalutata probabilmente del 30-40%, il sistema bancario crollerebbe pericolosamente e il valore del patrimonio degli italiani verrebbe messo a dura prova a causa della forte inflazione e della valuta molto debole. All’inizio è quasi certa la fuga di capitali verso paesi più stabili, mentre le migliori imprese finirebberoo nel mirino di acquirenti esteri con enormi disponibilità economiche che potrebbero così acquisire i pezzi pregiati dell’industria italiana a prezzi di saldo. Insomma, se è vero che l’idea di uscire dall’euro sfiora oggi la mente di tantissimi italiani (ma non solo) insoddisfatti delle attuali politiche economiche europee, tornare alle monete nazionali potrebbe non essere la ricetta giusta, mentre abbracciare politiche monetarie e fiscali ultra-espansive potrebbe essere il primo passo quantomeno per un’Europa più serena e in grado di guardare al futuro con maggiore ottimismo.

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