Storia delle pensioni italiane

Felice Bianchini

22/12/2021

25/10/2022 - 12:00

condividi

Quota 100, quota 102, legge Fornero, contributi: tanti termini, tante leggi e troppo spesso poca chiarezza. Per chi cerca di capire qualcosa sulle pensioni in Italia, ecco la storia.

Storia delle pensioni italiane

Il sistema pensionistico è uno tra i temi più caldi del dibattito politico italiano, soprattutto nel periodo di approvazione della manovra di bilancio.

Nel corso della storia italiana sono stati numerosi gli interventi di riforma delle caratteristiche e del volume della spesa pensionistica e molto spesso i lavoratori, soprattutto chi si affaccia nel mondo del lavoro, non hanno avuto modo di comprendere appieno tutti i cambiamenti e i passaggi di queste riforme pensionistiche.

Per capire dove siamo, occorre avere chiaro come ci siamo arrivati, per questo ripercorriamo insieme la storia delle pensioni italiane.

I pilastri della Banca mondiale

La Banca mondiale (la «gemellina» del Fondo monetario internazionale) nel 1994 si è occupata della definizione dei modelli pensionistici, delineando 5 «pilastri». Ogni Stato organizza il proprio sistema pensionistico combinando due o più dei pilastri:

  1. pilastro 0: pensione di base finanziata col gettito fiscale, universale o meno;
  2. pilastro 1: sistema pubblico obbligatorio finanziato con gettito fiscale o riserve finanziarie;
  3. pilastro 2: sistema obbligatorio corporativo o individuale;
  4. pilastro 3: sistema volontario corporativo o individuale, tramite la gestione dei risparmi;
  5. pilastro 4: sistema volontario esterno al sistema pensionistico, fondato sull’accesso a un parco di strumenti finanziari e non.

    Il sistema pensionistico italiano combina il primo, il terzo e il quarto pilastro.

Storia delle pensioni italiane

Possiamo dividere la storia delle pensioni italiane in tre parti:

  1. dal 1861 al 1968: nascita del sistema previdenziale e affermazione di un modello misto a capitalizzazione e contributivo;
  2. dal 1969 al 1991: periodo caratterizzato dall’introduzione del sistema retributivo;
  3. dal 1992 fino ai giorni nostri: avvio del cosiddetto «processo di armonizzazione e stabilizzazione del sistema previdenziale», che è consistito in una retromarcia dal retributivo al contributivo;

Prima parte (1861-1968): i primi passi del sistema previdenziale

I primi movimenti verso un sistema previdenziale si ebbero dopo la rivoluzione industriale. Nel 1861 venne introdotta un’assicurazione per i marinai, a carico degli equipaggi.
Nel 1883 nacque la Cassa nazionale di assicurazione per gli infortuni sul lavoro (quella che nel 1933 prenderà il nome di INAIL). La vera storia, però, iniziò qualche anno più tardi.

1895-1898: il primo sistema pensionistico

Solo nel 1895 si delineò un vero e proprio sistema pensionistico, destinato ai militari e ai dipendenti statali. Nel 1898 vennero coinvolti anche i privati, con un sistema di assicurazione volontaria, fondato sui contributi dei lavoratori, integrati da un contributo libero dello Stato e degli imprenditori.

Questo sistema fu chiamato «Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai» e contò nel suo primo anno di attività solo 978 iscritti.

1919: evoluzione della Cassa nazionale

Poco prima dell’avvento del regime fascista, la Cassa nazionale del 1898 contava circa 660 mila iscritti (molti più di prima, anche se va detto i lavoratori attivi erano valutati nell’ordine dei 12 milioni).

Venne integrata, al suo interno, la cosiddetta Assicurazione generale obbligatoria (AGO), destinata ai lavoratori di industria e agricoltura. La formula adottata è detta a capitalizzazione: i lavoratori versavano contributi, i quali venivano investiti in titoli di stato e immobili.

Alla maturazione dell’età pensionabile (fissata a 65 anni sia per gli uomini che per le donne), veniva versato il corrispettivo a fronte dei contributi versati.

1927-1939: ampliamento della platea pensionabile e nascita dell’INFPS

Nel 1927, durante il regime fascista, a seguito dell’emanazione della Carta del lavoro e dell’affermazione dei contratti collettivi nazionali, i diritti riguardanti l’assicurazione contro gli infortuni e la previdenza per gli anziani furono riconosciuti e garantiti a molte più persone.

All’inizio degli anni ’30, la vecchia Cassa nazionale fu ristrutturata e prese il nome di Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale (INFPS).

A una riduzione del salario e dell’orario di lavoro fece fronte l’introduzione degli assegni familiari per i figli e, a partire dal 1935, l’assicurazione per la disoccupazione involontaria. Nel 1939, invece, vide la luce la luce la pensione di reversibilità e venne ridotta l’età pensionabile (60 anni per gli uomini, 55 anni per le donne).

1945-1968: le riforme del secondo dopoguerra

Nel 1945 il meccanismo pensionistico si sdoppiò:

  • da una parte restò in vigore il sistema a capitalizzazione, che si basava sulle cosiddette «marchette», dei bolli commisurati alla retribuzione, che venivano attaccati sulla tessera del lavoratore;
  • dall’altra venne introdotto un meccanismo di raccolta di contributi in percentuale sulla retribuzione del lavoratore, con i quali veniva integrata l’assicurazione sociale.

Nel 1952 venne invece introdotta la pensione minima, che variava a seconda dell’età e del tipo di pensione. Tutte le prestazioni al di sotto dei minimi stabiliti dovevano essere integrate fino a raggiungere il minimo, il tutto a carico dello Stato (da notare che, con la stessa legge, venne introdotta la tredicesima).

Il fondo di integrazione venne sostituito dal cosiddetto fondo per l’adeguamento, finanziato per metà dagli imprenditori e per un quarto da Stato e lavoratori.

Nel 1957 anche gli autonomi nel campo dell’agricoltura si videro riconosciuto il diritto alla pensione, affermato sotto forma di assicurazione obbligatoria, cui fanno seguito nel ’59 gli artigiani e nel ’66 i titolari di attività commerciali.

Altro anno rilevante fu il 1965, in cui venne istituita la pensione di anzianità, legata esclusivamente all’età contributiva (nello specifico, chi aveva alle 35 anni di contributi).

Seconda parte (1969-1991): l’era del sistema retributivo


Dopo la prima fase, incentrata su un sistema di tipo contributivo, iniziò la seconda, caratterizzata dal metodo di calcolo retributivo.

1969-1976: introduzione del sistema retributivo

Il sistema retributivo (o a ripartizione) venne introdotto nel 1969. A differenza di quello contributivo, o di quello a capitalizzazione, il calcolo della pensione che veniva effettuato non si basava più sul volume dei contributi, o dei risparmi investiti, ma sulla retribuzione degli ultimi 3 anni di lavoro.

Nel 1976 venne aggiornato il sistema, garantendo un corrispettivo nell’ordine dell’80% della retribuzione, non più degli ultimi 3 anni, ma del triennio con la media più alta negli ultimi 10 anni di lavoro.

1980-1991: l’ultima «fase retributiva»

Negli anni ’80 si chiuse, dopo un ventennio, la stagione retributiva. Nel 1981 fu istituito il prepensionamento per lavoratori al di sotto dell’età pensionabile, se licenziati a causa di crisi industriali.

Nel 1983 vennero poi introdotte nuove regole per la raccolta e l’accredito dei contributi:

  • termine perentorio (con inasprimento di sanzioni) per i datori lavoro per il versamento dei contributi;
  • un minimo contributivo settimanale per ricevere l’accredito dei contributi;
  • un minimo di giornate lavorate per i lavoratori agricoli;
  • una limitazione delle giornate di malattia indennizzate, vincolate alle giornate lavorate nell’anno precedente.

    L’ultimo tassello prima della nuova stagione fu la riforma, nel 1990, del trattamento pensionistico degli autonomi. Venne fissato un minimo contributivo al 12% del reddito IRPEF, e fu agganciato il valore della pensione, come per i lavoratori dipendenti, all’80% della retribuzione degli anni di contribuzione.

Terza parte (1992-oggi): processo di armonizzazione e stabilizzazione del sistema previdenziale


L’ultima parte della storia ha avvio con la riforma Amato (1992) e prosegue durante tutta la seconda Repubblica, fino ad arrivare all’ultima grande riforma, la Monti-Fornero (2011), che generalizzò il metodo di calcolo contributivo.

1992: riforma Amato

Con l’avvicinamento della fine della cosiddetta prima Repubblica, con la riforma Amato, si registrò una delle prime manovre espressamente volte al contenimento della spesa pensionistica (quello che il Ministero del Lavoro chiama «processo di armonizzazione e stabilizzazione del sistema previdenziale»).

L’intervento consistette principalmente in due forme:

  1. incremento dei requisiti anagrafici per accedere al pensionamento - in particolare per il settore privato -, che passarono da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 per le donne;
  2. riduzione degli adeguamenti delle pensioni con l’eliminazione dell’aumento per dinamica salariale reale (aumento dei salari), senza però toccare l’adeguamento al costo della vita per i meno abbienti, calcolato con l’indice dei prezzi al consumo (aumento dei prezzi).

1995: riforma Dini

Nel ’95, con Dini, venne studiato un nuovo sistema di calcolo per tutti i lavoratori assunti dopo il 31 dicembre ’95. Fece ritorno il metodo contributivo, con il quale il valore della pensione viene definito moltiplicando i contributi versati per un coefficiente basato sull’età al momento del pensionamento. L’età pensionabile poteva variare dai 57 ai 65 anni (a prescindere dal sesso).

I requisiti furono stabiliti in relazione al metodo di calcolo applicato (basato sugli anni di lavoro al 31 dicembre 1995). I metodi divennero tre:

  1. retributivo;
  2. misto retributivo – contributivo (o pro-rata);
  3. contributivo puro.

Per tutti i lavoratori con diciotto anni di contribuzione alla fine del ’95 sarebbe rimasto in vigore il retributivo. Per chi aveva meno di diciotto anni di contribuzione si utilizzava il sistema misto, somma di due componenti:

  1. una parte, quella legata ai contributi precedenti la fine del ’95, calcolata col metodo retributivo;
  2. una parte, successiva al ’95, calcolata col metodo contributivo.

Per tutti i lavoratori del contributivo puro, beneficiari di molteplici prestazioni relative all’anzianità, fu stabilita un’unica prestazione, chiamata pensione di vecchiaia.

I coefficienti dovevano essere rivisti ogni dieci anni, sulla base dell’andamento demografico (comprendente l’aspettativa di vita) e del tasso di crescita del PIL e delle retribuzioni. La prima modifica avvenne nel 2007 e entrò in vigore nel 2010, stabilendo anche una diminuzione del tempo di modifica a 3 anni.

1997: riforma Prodi

Nel 1997 Prodi emanò una nuova riforma, con l’obiettivo di ridurre le disparità tra dipendenti pubblici e privati, nonché i costi generali del sistema previdenziale. In concreto si stabilì:

  • una modifica per tutti i lavoratori (qualsiasi fosse la forma di pensione): a partire dal ’98, ai nuovi contributi veniva applicata una vecchia tabella, introdotta dalla riforma Amato del ’92 (art.12 del decreto n.503 1992);
  • una modifica per gli autonomi dei requisiti per l’accesso alla pensione di anzianità, nell’ordine dei 58 anni di età e 35 anni o più di contributi (il sistema delle «quote»: età anagrafica più età contributiva).

2001-2004: riforma Berlusconi

Con l’ingresso nel nuovo millennio fu la volta di Berlusconi, che, tra il 2001 e il 2004, intervenne sul sistema pensionistico. Le modifiche più rilevanti furono:

  • l’aumento delle pensioni minime a circa 500 euro per chi avesse più di 70 anni;
  • l’introduzione del cosiddetto bonus previdenziale per i dipendenti privati, ossia la possibilità (dal 2004 al 2007) di proseguire l’attività lavorativa, senza obblighi di versamento dei contributi per il datore di lavoro, che dovevano essere corrisposti direttamente al lavoratore, con il vantaggio di esenzioni fiscali, nonché il diritto a conteggiare gli anni di lavoro aggiuntivo nell’età contributiva al momento del pensionamento (veniva dunque incentivato un processo di aumento dell’età pensionabile);
  • modifica di quello che diverrà il sistema delle quote per la pensione di anzianità, portando i requisiti a 35 anni di contributi e 60 anni di età (con impostato un aumento a 61 nel 2010), o «semplicemente» 40 anni di contributi;
  • per quanto riguarda i lavoratori del recente (Dini) contributivo puro, aumento a 5 anni di contributi più 65 anni d’età per gli uomini e 5 più 60 per le donne, intervento che fu chiamato «scalone» e fu oggetto di aspre critiche, in quanto eliminava la flessibilità della riforma Dini (requisito anagrafico tra 57 e 65 anni).

2007: riforma Prodi II

Per rispondere alle polemiche che creò la riforma Berlusconi, Prodi, col suo nuovo governo, nel 2007, diede vita alla quinta riforma delle pensioni in quindici anni (che fu introdotta a partire dal 2009).

In sintesi, lo scalone venne sostituito con degli scalini, di modo da rendere il passaggio ai 65 anni di età più graduale, senza toccare la possibilità di pensionarsi per chiunque avesse 40 anni di contributi.

2010: riforma Berlusconi II

Alla seconda riforma Prodi fece eco, nel 2010, la seconda riforma Berlusconi. La normativa entrata in vigore nel 2009 prevedeva un adeguamento dell’età pensionabile delle donne (60 anni) a quella degli uomini (65 anni) nel 2018.

Con la riforma berlusconiana del 2010, l’adeguamento venne anticipato al 2012. In generale fu impostato un sistema di adeguamento di genere e di settore, che tradotto significa: non importa se sei uomo o donna e se sei lavoratore nel pubblico o nel privato.

Viene poi elaborato un sistema di modifica dei requisiti, chiamato finestra mobile, che prevedeva lo slittamento di un anno per i dipendenti e di un anno e mezzo per gli autonomi che avessero maturato la possibilità di pensionarsi al 1 gennaio 2011. Alla finestra mobile si aggiunse, per i lavoratori con 40 anni di contributi, un ulteriore slittamento della liquidazione di tre mesi.

L’indicizzazione al costo della vita per le pensioni più alte venne abolita e avvenne l’inserimento ufficiale della speranza di vita nel processo di calcolo delle pensioni, anticipandone l’aggiornamento (precedentemente fissato al 2015) al 2013.

2011: riforma Monti-Fornero

L’ultima vera riforma del sistema pensionistico italiano è la tanto discussa riforma Monti-Fornero, figlia del governo tecnico che si insediò nel novembre del 2011, dopo le dimissioni di Berlusconi.

Quota 100 è stata semplicemente una finestra d’uscita della durata di 3 anni 2018-2021, che non ha abrogato la Fornero, né ne ha modificato l’impalcatura normativa, ponendosi in un certo senso di fianco.

In sintesi, la riforma Fornero proseguiva, in maniera decisa, il percorso di riduzione del peso della spesa pensionistica, per mezzo dell’aumento dell’età pensionabile e del ridimensionamento di alcuni trattamenti.

Nello specifico, l’intervento fu caratterizzato da:

  • adozione generalizzata del metodo contributivo (pur sempre pro-rata);
  • abolizione del sistema delle quote;
  • anticipazione al 2018 dell’aggiornamento della convergenza dell’età pensionabile di uomini e donne;
  • introduzione della cosiddetta fascia di flessibilità per accedere al trattamento pensionistico (66-70 anni);
  • conferma del principio dell’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita;
  • modifica dell’accesso anticipato (42 anni e un mese di età contributiva e per gli uomini, 41 e un mese per le donne).

Retributivo o contributivo?

Con la Fornero si è completato il processo di retromarcia dal sistema retributivo a quello contributivo, incominciato con Amato e Dini. Alla base di questo dietrofront si è posta non solo la maggiore sostenibilità economica del sistema contributivo, ma anche la sua maggiore equità rispetto al sistema retributivo.

Il sistema contributivo viene considerato più equo del retributivo in quanto quest’ultimo, basandosi sulla retribuzione degli ultimi anni di lavoro (che tramite scatti di anzianità può essere di gran lunga superiore a quella dei primi anni), può generare una pensione «gonfiata».

Il contributivo, dal canto suo, è più equo nella misura in cui tiene conto della carriera lavorativa nel suo complesso, sulla base dei contributi versati. Tuttavia, non è esente da rischi di iniquità: in un mercato del lavoro precario e flessibilizzato è facile che si sviluppino carriere discontinue, caratterizzate da «buchi contributivi», anche pluriennali. Da questa prospettiva, il lavoratore viene fortemente penalizzato.

Il modello di sistema pensionistico, di per sé, è una condizione necessaria ma non sufficiente per l’equità, la quale sembra conseguibile solo per mezzo di un mercato del lavoro solido, caratterizzato da bassa precarietà e tendente alla piena occupazione (che alcuni studi indicano essere anche la base per una crescita della produttività).

Iscriviti a Money.it