Ecco perché il mondo trema all’idea di uno scenario di deflazione

Nicola D’Antuono

10 Gennaio 2014 - 06:39

La deflazione, questa sconosciuta. Ecco perché può creare danni irreparabili all’economia e perché le banche centrali la temono così tanto

Ecco perché il mondo trema all’idea di uno scenario di deflazione

Il focus delle principali banche centrali si sta spostando sempre di più sulle dinamiche dell’inflazione, che negli ultimi anni è via via diminuita scendendo su livelli sempre più bassi a causa di un ciclo economico globale caratterizzato da eccessivi alti e bassi, ma soprattutto contraddistinto da una notevole contrazione dei consumi sulle aspettative di riduzione dei prezzi in alcune aree economiche fondamentali, in particolare l’Europa. Se fino a pochi anni fa il timore principale delle banche centrali era il possibile boom dell’inflazione, a causa delle continue iniezioni di liquidità, oggi la situazione appare capovolta e inizia a preoccupare sempre più un possibile scenario di deflazione. Negli Stati Uniti, Regno Unito e Cina l’inflazione resta sotto controllo, ma è in diminuzione da tempo.

La Cina deve fare i conti con un tasso di inflazione che a dicembre è sceso sui minimi degli ultimi 7 mesi al 2,5% dal precedente 3%. Il risultato ha sorpreso negativamente anche gli analisti finanziari, che si aspettavano un lieve incremento al 2,7%. Negli USA, dove i consumi rappresentano circa due terzi del pil, l’inflazione “core” è stabile anche se inferiore al livello ottimale del 2% individuato dalla FED. Dall’estate del 2011 l’inflazione “core”, ovvero depurata dalla componente alimentare ed energetica, oscilla tra l’1,6% e il 2,3%. Anche nel Regno Unito stiamo assistendo a una decelerazione dell’inflazione, ma è in Europa che le pressioni deflazionistiche sono più preoccupanti, a causa di una disoccupazione a livelli record, alla diminuzione dei salari reali e al crollo dei consumi.

Dopo la lieve ripresa di novembre allo 0,9%, l’inflazione nell’area euro è tornata a scendere allo 0,8%, ovvero poco più dello 0,7% evidenziato a ottobre che rappresentava il livello più basso da circa 4 anni. Un tasso di inflazione così basso, ben lontano dal 2% indicato come target di medio periodo dalla BCE, non fa altro che aumentare i rischi al ribasso per l’economia nel lungo termine, a causa di una probabile diminuzione dei salari e della domanda. Il drastico calo avvenuto nel mese di ottobre, con l’indice CPI ai minimi da febbraio 2010, ha spinto poi la BCE a ridurre il costo del denaro di un quarto di punto allo 0,25%. Lo spettro della deflazione sta mettendo in agitazione i quartieri alti di Francoforte, dove però i “falchi” del Comitato Direttivo dell’Eurotower non hanno intenzione di lasciare strada libera alle “colombe” per un nuovo taglio dei tassi di interesse.

In Giappone, invece, il governo guidato da Shinzo Abe ha avviato un’aggressiva politica economica (Abenomics) spingendo la Bank of Japan a lanciare una mastodontica operazione di quantitative easing, che ha già svalutato lo yen di oltre il 20% negli ultimi 12 mesi e creato i presupposti per un lieve aumento dei prezzi. L’obiettivo dichiarato dal governo e dalla BoJ è il raggiungimento di un tasso di inflazione del 2% nel giro di un paio d’anni, per mettere fine all’era deflazionistica che ha attanagliato il paese del Sol Levante per circa 15 anni. Ma perché le banche centrali temono così tanto uno scenario di bassa inflazione? Quali sono i potenziali effetti sull’andamento dell’economia?

Ben Bernanke, che a fine mese lascerà il posto a Janet Yellen alla guida della FED, è stato uno dei principali studiosi della Grande Depressione degli anni ’30 del secolo scorso e dei pericoli generati dal protrarsi di uno scenario deflazionistico. Bernanke teme la deflazione e non a caso è stato un convinto sostenitore della politica monetaria non convenzionale di immissione di liquidità nel sistema, nota come quantitative easing. Quando l’economia sperimenta la deflazione, quasi tutto diminuisce: salari, prezzi, pil, redditi. Durante la Grande Depressione il reddito nominale scese addirittura del 53%. Perché? Supponiamo che il nostro reddito mensile sia pari a 2.000$. Il crollo del 53% fa scendere il reddito a 1.060$. Allo stesso tempo si verifica una discesa dei prezzi al consumo per restare al passo con il calo dei redditi.

Tuttavia, ciò che non diminuisce è il debito. Infatti, l’indebitamento è nominale, quindi un numero fisso. Se prima del crollo dei redditi e dei prezzi il debito era di 800$, anche ora il valore è lo stesso. Ciò crea pericolose spirali fatte di svalutazioni e insolvenze, in grado di mettere in ginocchio un intero paese, come accadde agli Stati Uniti e in Europa negli anni ’30 del Novecento. Oggi le grandi nazioni hanno debiti enormi, per cui uno scenario deflazionistico rischierebbe di far crollare il valore delle economie più importanti del mondo. Ecco perché, dopo la crisi finanziaria del 2008, la FED e le altre banche centrali hanno iniziato a stampare moneta e a ridurre i tassi fino allo zero. La deflazione spaventa tutti, non solo la popolazione ma anche i governi che si ritroverebbero con entrate fiscali sempre più basse e con un sempre maggiore rischio di insolvenza. Non è quindi l’inflazione che deve preoccupare (tranne quando diventa iperinflazione), bensì la deflazione: il sistema economico-finanziario diventa soggetto a un rischio di implosione.

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