Come funziona il riscaldamento centralizzato in condominio? Ecco fasce orarie, regole e come fare il distacco e tornare al riscaldamento autonomo.
L’autunno è arrivato e con le prime giornate più fredde torna la questione del riscaldamento nei condomìni: chi lo accende, per quante ore, a quale temperatura, e quanto costerà davvero resta un tema caldo (letteralmente) nei pensieri di tanti. In un momento storico segnato da sfide ambientali e dai prezzi dell’energia ancora sotto pressione, avere chiaro come funziona il riscaldamento condominiale centralizzato è più importante che mai. Anche per il benessere personale - oltre che di portafoglio.
Molti condomini sono dotati di un impianto unico, gestito collettivamente, che fornisce calore a tutte le unità abitative. Ma quell’apparente “comodità” nasconde regole precise: fasce orarie obbligatorie, limiti di temperatura stabiliti dalla normativa, obblighi tecnici come la contabilizzazione e la termoregolazione, e la possibilità - assai discussa - di distaccarsi dall’impianto centralizzato per passare a un sistema autonomo.
Nel corso del 2025, inoltre, sono accelerate le politiche europee e nazionali per la decarbonizzazione degli edifici: il “blocco” definitivo (dal 1° gennaio 2025) degli incentivi per le caldaie alimentate esclusivamente a combustibili fossili rappresenta un cambio di scenario significativo nel settore termico.
Ma andiamo nel dettaglio e scopriamo in modo chiaro e scorrevole come funziona il riscaldamento centralizzato in condominio, quali fasce orarie la legge impone, chi decide la temperatura, come si calcolano i costi e se è possibile - e come fare - il distacco dall’impianto.
Riscaldamento condominiale centralizzato: come funziona?
Quando parliamo di riscaldamento condominiale centralizzato, intendiamo un sistema nel quale l’intero edificio è servito da una sola caldaia o unità termica centrale. In pratica, non ogni appartamento ha la sua caldaia personale, ma tutto il calore viene generato in un unico punto e distribuito ai vari appartamenti tramite tubazioni, radiatori e circuiti condivisi.
Dal 2016 (termine fissato per legge) è obbligatorio che questi impianti centralizzati siano dotati di dispositivi di contabilizzazione del calore e termoregolazione: ciò significa che ogni unità immobiliare deve poter distinguere il proprio consumo ai fini della ripartizione delle spese. Questo obbligo discende dal Decreto Legislativo 4 luglio 2014, n. 102, e dalle sue modificazioni successive, in particolare il D.Lgs. 141/2016 e le integrazioni introdotte col D.Lgs. 73/2020.
In concreto, cosa significa? Nei radiatori o corpi scaldanti presenti in ciascun appartamento vengono installati elementi come valvole termostatiche (che permettono di regolare il flusso di acqua calda e quindi la temperatura del radiatore) oppure ripartitori di calore (dispositivi che misurano quanta energia termica viene effettivamente utilizzata). In questo modo è possibile stimare una quota di consumo individuale e dividere il costo complessivo in base all’uso reale.
Il metodo di ripartizione deve seguire i criteri della norma tecnica UNI 10200 (e versioni aggiornate), che stabilisce come calcolare le quote da attribuire ai consumi “volontari” e alle parti fisse comuni (ad esempio le perdite, la gestione dell’impianto, gli oneri di manutenzione).
Dal punto di vista pratico, ogni condomino in genere può gestire a livello domestico l’intensità o la durata del riscaldamento nel proprio appartamento (es. abbassando la valvola termostatica), ma non può alterare in autonomia la programmazione generale dell’impianto (orari di accensione, fasce orarie, spegnimento) che sono decisi collettivamente, entro i limiti imposti dalla legge.
È importante sottolineare che, oltre all’obbligo di contabilizzazione, il legislatore ha previsto sanzioni amministrative nel caso in cui il condominio non si conformi agli schemi obbligatori (art. 16 comma 8 del D.Lgs. 102/2014).
Negli edifici esistenti in cui risulti tecnicamente impossibile l’installazione di tali dispositivi, possono essere applicati metodi proporzionali, ma ciò deve essere adeguatamente motivato da relazione tecnica, secondo quanto previsto dalla normativa.
Tale architettura legislativa ha lo scopo non solo di promuovere una gestione equa della spesa termica, ma anche di incentivare comportamenti più consapevoli e un uso più efficiente dell’energia.
Orari e date del riscaldamento centralizzato previsti dalla normativa
Quando si può accendere il riscaldamento in condominio? La risposta è: entro precise fasce stabilite per legge, in funzione della zona climatica in cui si trova il comune. La data di accensione dei termosifoni e la durata massima sono stabilite a livello nazionale dalla legge numero 10 del 09/01/1991 in base alle esigenze regionali. La legge divide l’Italia in diverse zone, a cui viene assegnata una lettera:
- zona A: Lampedusa; Linosa; Porto Empedocle.
- zona B: Agrigento; Catania; Crotone; Messina; Palermo; Reggio Calabria; Siracusa ed infine Trapani.
- zona C: Ancona; Ascoli Piceno, Bari; Benevento; Cagliari; Caserta; Catanzaro; Cosenza; Latina, Lecce; Napoli; Oristano; Ragusa; Salerno; Sassari;Taranto.
- zona D: Avellino; Caltanissetta; Chieti; Foggia; Genova; Imperia, Isernia; La Spezia, Savona, Forlì, Firenze; Grosseto; Livorno; Lucca; Macerata; Massa Carrara; Matera; Nuoro; Pescara; Pesaro; Pisa; Pistoia, Prato; Roma; Siena; Terni; Teramo; Viterbo; Vibo Valentia.
- zona E: Alessandria; Aosta; Arezzo; Asti; Bergamo; Biella; Bologna; Bolzano, Brescia; Campobasso; Como; Cremona; Enna; Ferrara; Frosinone; Gorizia; Lecco; L’Aquila; Lodi; Milano; Modena; Parma; Piacenza, Potenza. Padova; Pavia, Perugia, Novara, Modena; Parma; Piacenza; Pordenone, Rieti, Sondrio; Torino; Varese, Verbania; Vercelli. Venezia, Verona; Vicenza, Treviso; Trieste; Udine.
- zona F: Belluno; Cuneo; Trento.
Ciascuna ha limiti massimi di ore giornaliere e periodi stagionali consentiti. Ad esempio, leggendo le normative applicate nel 2024/2025 si rileva che in zona A è previsto un massimo di 6 ore al giorno, zona B 8 ore, zona C 10 ore, zona D 12 ore e zona E 14 ore, mentre la zona F non ha limitazioni particolari.
| Zona climatica | Periodo di accensione | Ore massimo giornaliere consentite |
|---|---|---|
| A | 1° dicembre – 15 marzo | 6 ore/giorno |
| B | 1° dicembre – 31 marzo | 8 ore/giorno |
| C | 15 novembre – 31 marzo | 10 ore/giorno |
| D | 1° novembre – 15 aprile | 12 ore/giorno |
| E | 15 ottobre – 15 aprile | 14 ore/giorno |
| F | nessuna limitazione | nessuna limitazione (può essere acceso tutto l’anno) |
Per quanto riguarda le date di accensione e spegnimento, negli ultimi anni si è assistito a una stretta: il calendario è stato ridotto di 15 giorni totali (8 giorni all’inizio anticipati e 7 giorni in meno alla chiusura) rispetto ai precedenti cicli, con l’obiettivo di contenere i consumi energetici.
Oggi, ad esempio, anche lo spegnimento dei termosifoni avviene secondo il calendario delle zone climatiche: in zona A entro il 15 marzo, zona B e C entro il 31 marzo, zona D ed E entro il 15 aprile, mentre in zona F non esistono limiti temporali.
Va detto che, in situazioni climatiche eccezionali o in condizioni di crisi energetica, i comuni possono disporre proroghe o anticipazioni, purché restino entro i margini di legge.
Oltre ai limiti stagionali, la normativa impone che la temperatura interna non superi i 20 °C (con una tolleranza di ±2 °C), per abitazioni, uffici e scuole, mentre per gli edifici industriali o artigianali il massimo è 18 °C.
In sostanza, ogni condominio deve rispettare non solo “quando” attivare il riscaldamento, ma anche “per quanto a lungo” e “fino a quale temperatura”, attenendosi ai vincoli imposti dal suo collocamento climatico e dai provvedimenti locali.
Chi decide la temperatura “condominiale”?
La temperatura effettiva che gli ambienti raggiungono è un punto cruciale, perché influenza comfort, consumi e contestazioni tra condomini. La normativa nazionale stabilisce i limiti massimi, ma non indica un valore preciso che ogni condominio deve adottare: quello spesso si decide in assemblea, entro le soglie ammesse dalla legge.
Come accennato, per immobili residenziali, scuole e uffici, la temperatura massima consentita è di 20 °C con ± 2 °C di tolleranza (cioè valori tra 18 e 22 °C). Per gli edifici industriali o artigianali il limite è 18 °C (con eventuale margine di tolleranza) secondo la normativa vigente.
Tuttavia, tutte queste indicazioni sono “limiti superiori”: il valore concreto da adottare viene scelto in sede condominiale, tramite delibera in assemblea, nel rispetto delle regole contrattuali del regolamento condominiale e dei vincoli imposti dallo statuto del condominio.
Perché? Perché ciascun edificio ha caratteristiche diverse: coibentazione, esposizione, dispersioni termiche, necessità dei condomini. Un valore troppo alto può penalizzare chi ha appartamenti meno isolati, mentre uno troppo basso può risultare scomodo. Quindi l’assemblea può discutere e votare una temperatura “convenzionale”, entro il tetto consentito.
Qualche esempio: è nei casi frequente che in assemblea si stabilisca 19 °C come temperatura standard per la stagione, oppure 20 °C, oppure anche 19,5 °C, a condizione che non si superi il limite legale. Gli strumenti tecnici (valvole termostatiche) consentono poi ai singoli utenti di modulare la temperatura entro l’appartamento, sempre nei limiti della potenza disponibile.
Se un condomino ritiene che la decisione presa non sia congrua, può proporre un ricorso ai sensi dell’articolo 1133 del Codice civile, se ritiene che la delibera leda i suoi diritti o sia contraria al regolamento.
I costi del riscaldamento centralizzato condominiale
Calcolare quanto costa il riscaldamento in un condominio centralizzato non è banale: bisogna considerare il costo complessivo del combustibile, le perdite dell’impianto, la manutenzione, il servizio, gli oneri di gestione e la quota individuale basata sul consumo.
Innanzitutto, la base è la spesa energetica (gas, teleriscaldamento, biomassa, ecc.), che viene sostenuta collettivamente. Poi si aggiungono i costi fissi: manutenzione periodica della caldaia, controlli, verifiche, eventuali obblighi normativi, spese del responsabile dell’impianto termico.
Poi c’è la ripartizione tra “quota fissa” e “quota variabile”: la prima serve per coprire costi indipendenti dal consumo individuale (come perdite, gestione centrale), la seconda tiene conto del calore effettivamente utilizzato da ciascun condomino. È qui che entrano in gioco i ripartitori, i contatori, il metodo della norma UNI 10200.
In termini numerici concreti, per un condominio mediamente efficiente il peso della bolletta termica individuale può variare anche del 20-25 % a seconda dell’uso e dell’isolamento (chi tiene il riscaldamento acceso poco o mantiene basse temperature spende meno). Va considerato che la contabilizzazione e la termoregolazione spesso portano a risparmi rispetto al passato, proprio perché evitano sprechi.
Un fattore che incide è anche l’occupazione dell’appartamento (giorni di assenza), la zona dell’abitazione (quattro lati esposti, piano alto, ultimo piano), il tempo in cui il radiatore è in funzione, gli interventi di consolidamento (coibentazione, doppi vetri) e la differenza tra temperatura interna ed esterna (legata ai “gradi giorno”).
Infine, è bene ricordare che nel 2025 c’è un mutato contesto normativo: a partire dal 1° gennaio non sono più ammesse detrazioni fiscali per le caldaie alimentate a combustibili fossili, questo rende meno conveniente intervenire su impianti tradizionali senza adottare soluzioni ibride o rinnovabili. Quindi anche i costi e gli investimenti di sostituzione vanno valutati con attenzione.
Il condominio può distaccarsi dal riscaldamento centralizzato?
Una delle questioni più delicate nel condominio è: posso staccarmi dal sistema centralizzato e adottare un impianto autonomo per il mio appartamento? La risposta è sì, ma con molti vincoli. La possibilità di distaccarsi è prevista dalla legge 220/2012 in materia di condominio, ma non è automatica né illimitata:
serve il consenso della maggioranza e il rispetto di condizioni tecniche che garantiscano che il distacco non penalizzi il funzionamento dell’impianto o i diritti degli altri condomini.
Più nello specifico, il distacco è possibile se:
- non altera l’equilibrio termico dell’impianto condominiale (non costringe gli altri a consumare di più per compensare);
- non arreca danni agli altri condomini (per esempio flussi anomali, differenze di pressione o problemi idraulici);
- non compromette il funzionamento globale dell’impianto centralizzato (ad esempio non interferendo con la circolazione del fluido termico).
Per verificare che queste condizioni siano rispettate, è necessario un perito specializzato incaricato dal condomino che chiede il distacco: quel professionista dovrà produrre una relazione tecnica che attesti la fattibilità e l’assenza di danni.
È importante aggiungere che il consenso richiesto non è unanimemente stabilito: il distacco può avvenire anche se l’assemblea condominiale non acconsente in blocco, purché la domanda sia approvata dalla maggioranza qualificata secondo le regole del condominio, e le condizioni tecniche siano verificate.
Una volta accertato che il distacco è ammesso, il condomino che si stacca dovrà sopportare tutti i costi delle opere necessarie (collegamenti, modifiche, apparecchiature, autorizzazioni) e talvolta partecipare a quote residue di gestione centralizzata se ciò è previsto come condizione (ad esempio per garantirsi i servizi centralizzati rimanenti).
In conclusione: sì, il distacco è una strada che la legge apre, ma solo se gestita con rigore tecnico e legale.
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