3 fattori minacciano il costo del denaro in Europa

Laura Naka Antonelli

25 Settembre 2025 - 12:52

La BCE di Christine Lagarde sta sottovalutando questi tre grandi fattori, a danno dell’inflazione e della crescita dell’area euro? Lo spettro delle spinte disinflattive, spiegato.

3 fattori minacciano il costo del denaro in Europa

Ci sono ben tre fattori che stanno minacciando il costo del denaro dell’Eurozona e che rischiano dunque di far scendere i tassi di interesse del blocco decisi dalla BCE di Christine Lagarde più di quanto previsto dall’istituzione, che per ora ha deciso a quanto pare di incrociare le braccia, convinta di trovarsi in una buona posizione.

Di primo acchito, una eventuale discesa dei tassi non sarebbe una notizia negativa per i cittadini dell’area euro: tutt’altro, visto che le rate sui mutui a tassi variabili e i costi di finanziamento si ridurrebbero ulteriormente. Non per niente, la platea delle colombe che sperano in interventi più decisi sul costo del denaro da parte di Lagarde è decisamente affollata, nonostante le otto sforbiciate che la Banca centrale europea ha annunciato nel periodo compreso tra il 6 giugno del 2024 e il 5 giugno del 2025.

Detto questo, un calo più accentuato dei tassi di quanto messo in conto dalla BCE e rispetto a quanto calcolato dai mercati e dagli esperti non sarebbe affatto positivo, nel caso in cui riflettesse una misura di emergenza, necessaria da attivare per blindare l’Eurozona dalla minaccia di una disinflazione, a rischio di diventare deflazione.

Le spinte disinflazionistiche non sono infatti certo sinonimo di crescita del PIL, in sostanza di una economia sana. E proprio di spinte disinflattive ha parlato con Money.it Mario Pietrunti, Senior European Economist di BNP Paribas Asset Management, identificando tre fattori che rischierebbero di innescarle nell’arco dei prossimi trimestri.

BCE, sui tassi Lagarde troppo sicura del fatto suo? “Il processo disinflazionistico si è concluso”

Per ora la BCE di Christine Lagarde è sicura del fatto suo e Lagarde sembra ancora più concentrata sulla minaccia dell’inflazione - contando sugli effetti del bazooka fiscale della Germania di Merz e delle maggiori spese per la difesa su cui punta l’Unione europea - che sul pericolo di una disinflazione: spettro che, invece, secondo diversi economisti, potrebbe concretizzarsi con il rallentamento dei fondamentali economici, alle prese con i dazi di Trump.

E spettro che Lagarde neanche vedrebbe, dal momento che, nell’ultimo BCE Day dell’11 settembre 2025, pur ammettendo che “un euro più forte potrebbe far scendere l’inflazione più delle attese”, ha sottolineato che “ l’inflazione è dove vogliamo che si trovi ” e che “il mercato domestico sta mostrando resilienza”.

La numero uno dell’Eurotower ha detto anche che, a suo avviso, il processo disinflazionistico si è concluso, a dispetto di chi l’ha invitata, e anche da un po’, a sfornare addirittura un bazooka, in quanto il tempo starebbe per scadere. E a dispetto di chi teme che la Banca centrale americana stia scherzando con il fuoco.

Pur evitando di lanciare alert specifici, nel ricordare che nell’ultima riunione di politica monetaria “ la BCE ha ribadito l’intenzione di non effettuare ulteriori aggiustamenti ai tassi, a meno che il quadro macroeconomico non si deteriori repentinamente”, Pietrunti di BNP Paribas Asset Management ha identificato per l’appunto tre fattori che rischiano di far scendere ulteriormente i tassi di interesse dell’area euro e che potrebbero dunque erodere il costo del denaro: notizia non positiva soprattutto per le banche del blocco, che hanno beneficiato per diversi anni di un New Normal di tassi più alti (e che già hanno iniziato a scontare l’effetto dei tagli del costo del denaro avviati dall’Eurotower con l’inizio della fase di allentamento monetario del giugno del 2024).

BNP Paribas presenta i 3 fattori che potrebbero scatenare nuove spinte inflattive. Altri tagli BCE all’orizzonte

I tre fattori presentati da Pietrunti sono i seguenti:

  • Il Super euro.
  • La possibilità che il mercato dell’area euro finisca per essere inondato da prodotti cinesi, a causa dei dazi che l’amministrazione Trump ha imposto contro i beni che gli Stati Uniti importano dalla Cina.
  • L’indebolimento dei salari.

Così l’economista di BNP Paribas: “A nostro avviso l’apprezzamento dell’euro, le maggiori importazioni dalla Cina determinate dai dazi statunitensi e il rallentamento della crescita salariale porteranno nuove spinte disinflattive nei prossimi trimestri ”.

Il che significa, praticamente, che Pietrunti “ ritiene plausibile che la BCE torni a tagliare ulteriormente i tassi nella seconda metà del 2026 ”.

Esaminiamo il perché, secondo Pietrunti, questi tre fattori potrebbero scatenare nuove spinte deflattive nell’Eurozona.

Minaccia numero 1 per il costo del denaro: l’apprezzamento dell’euro

La crisi del dollaro USA innescata dalla nuova politica commerciale inaugurata dalla seconda amministrazione USA di Donald Trump si è tradotta in un repentino scatto dell’euro, che è stato il tema dominante di questo anno 2025. Ma il Super euro ha alimentato il timore di spinte disinflazionistiche in Eurozona, fattore che è stato messo in evidenza anche da altri economisti e strategist.

In un report appena pubblicato, relativo alle previsioni per l’economia del blocco nel quarto trimestre dell’anno, gli analisti di Scope Ratings hanno ricordato che l’euro ha segnato una crescita pari a ben +14% rispetto al dollaro nel 2025. Fattore che “ sta portando a dinamiche disinflazionistiche ”, al punto che “ un apprezzamento oltre la soglia di 1,20 contro il dollaro potrebbe sollevare preoccupazioni sulla competitività e sui rischi di deflazione ”.

Questa soglia pericolo ormai non è neanche tanto lontana, se si considera che, alla vigilia del Fed Day di mercoledì scorso 17 settembre 2025, quando la Banca centrale americana guidata dal presidente Jerome Powell ha annunciato il primo taglio dei tassi sui fed funds USA di questo anno, pari a 25 punti base, alla nuova forchetta compresa tra il 4% e il 4,5%, il rapporto EUR-USD è scattato anche fino a quota $1,18785, al record degli ultimi quattro anni, dando ragione a chi, come Pietrunti, individua nella corsa della valuta una ragione per temere un processo disinflazionistico nell’area euro, più accentuato di quanto preveda la BCE.

A Strong Euro Isn’t What the Doctor Ordered”, ovvero “ Un euro forte non è quello che il dottore ha prescritto ”, scriveva Marc Ashworth su Bloomberg agli inizi di luglio, presentando la minaccia di una moneta unica troppo alta nei confronti non solo della valuta americana, ma anche di altre monete, e scrivendo chiaro e tondo che, in un momento in cui le esportazioni dell’Eurozona sono destinate già a soffrire a causa dei dazi imposti dall’amministrazione di Donald Trump, un Super euro renderebbe ancora più difficile “ riuscire a sostenere i volumi dell’export ”.

Insomma, brutta faccenda per le aziende italiane e dell’Eurozona in generale, già alle prese con lo schiaffo dei dazi di Trump: un euro troppo forte finirebbe infatti con il deprimere ulteriormente le esportazioni e dunque i ricavi delle aziende, costringendo di conseguenza queste ultime, strette nella morsa degli effetti negativi sulla loro redditività, ad avviare round di licenziamenti. L’impatto sui fondamentali economici sarebbe inevitabile: aumento del tasso di disoccupazione, frenata dei consumi e dunque del PIL e dunque dietrofront anche dell’inflazione.

Per evitare il peggio, ovvero il fenomeno della deflazione, la BCE sarebbe costretta di conseguenza tornare a tagliare i tassi di interesse, facendo scendere il costo del denaro.

Minaccia numero 2. Le maggiori importazioni dalla Cina determinate dai dazi statunitensi

Il secondo fattore che potrebbe scatenare nuove spinte deflattive, e dunque costringere Lagarde a ridurre ulteriormente i tassi, sarebbe rappresentato secondo Pietrunti dal rischio di un aumento delle importazioni di prodotti cinesi da parte dell’area euro.

Colpita anch’essa dalle tariffe di Donald Trump, la Cina potrebbe infatti decidere di esportare una quantità maggiore di beni in Europa e in altri mercati ex USA, esercitando in questo modo una pressione ribassista sui prezzi.

Di questo fenomeno potenziale ha parlato tra gli altri anche Ecaterina Bigos, Chief Investment Officer, Asia ex-Japan, AXA IM Core, che ha ricordato quanto sta avvenendo a Pechino, alle prese con la piaga della deflazione.

“A luglio il contesto deflazionistico della Cina è proseguito per il 34° mese consecutivo, con l’indice dei prezzi alla produzione (PPI) rimasto invariato. La persistente debolezza dei PPI solleva timori di eccesso di capacità produttiva e incide sui prezzi all’esportazione, aumentando i rischi di deflazione delle esportazioni e mettendo in ultima analisi a repentaglio la crescita di altre economie manifatturiere. Sebbene questo scenario sia in gran parte tollerato, visto che molti importatori sono ancora alle prese con un’inflazione elevata, potrebbe diventare problematico una volta che i tassi di inflazione rientreranno negli intervalli previsti”.

Bigos ha avvertito che “la persistente debolezza dei consumi interni e la forte produzione manifatturiera della Cina pongono rischi disinflazionistici duraturi e un renminbi più debole potrebbe essere un altro potenziale veicolo di propagazione della deflazione ad altri mercati ”.

Nel ricordare che “la competitività delle esportazioni cinesi è ampia e spazia dalla tecnologia ai metalli di base”, il Chief Investment Officer, Asia ex-Japan, AXA IM Core ha puntualizzato insomma che, “con il commercio cinese sempre più reindirizzato dagli Stati Uniti verso le economie europee e asiatiche, queste ultime diventano più sensibili a una concorrenza potenzialmente maggiore da parte della Cina”. Conseguenze: guerra dei prezzi con naturale pressione ribassista sugli stessi, e rischio di maggiori spinte disinflattive.

Minaccia numero 3. Il nodo dei salari più bassi. Altro fattore che rischia di erodere il costo del denaro

Infine, per Mario Pietrunti, un terzo fattore che potrebbe fomentare le spinte inflattive è rappresentato dalla moderazione della crescita dei salari nell’area euro. Un fattore che è anch’esso già presente, come quello del Super euro.

I salari - che, ricordiamo, rappresentano un parametro importante per monitorare il trend dell’inflazione - stanno di fatto crescendo nell’area euro a un ritmo più debole rispetto al passato.

Una prova del nove è arrivata proprio dalla BCE di Christine Lagarde, che ha reso noto lo scorso 17 settembre 2025 i numeri preliminari relativi al dato che Francoforte monitora per osservare il trend dei salari.

Da quei numeri è emerso che la crescita dei salari nell’Eurozona, nella prima metà del 2026, dovrebbe risultare inferiore ai livelli attuali e più stabile.

Nello specifico, secondo la Banca centrale europea, nel corso del 2026 il trend dei salari negoziati nell’Eurozona rallenterà fino a riportare un rialzo inferiore al 2% su base annua.

Le previsioni sono di un aumento pari ad appena l’1,7% nel corso del primo semestre dell’anno prossimo, in ribasso rispetto al 2,1% del secondo semestre del 2025 e contro il 4,3% del primo semestre di quest’anno.

Ciò significa che le pressioni inflazionistiche fino a oggi esercitate dai salari saranno smorzate in modo significativo, salendo a un ritmo decisamente inferiore al picco del 5,2% riportato alla fine del 2024.

Insomma, secondo l’economista senior di BNP Paribas gli elementi che potrebbero sorprendere Lagarde, costringendola a tornare a intervenire sui tassi di interesse dell’Eurozona, non mancano. Tutto, mentre permangono i dubbi sul rischio che la presidente della BCE finisca alla fine per sottovalutare stavolta non il pericolo dell’inflazione, ma esattamente il suo opposto. Mettendo nei guai l’intera Eurozona.

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