L’accordo commerciale tra Trump e Xi Jinping sembra aver favorito il paese asiatico, ma è davvero così?
Di recente si è tenuto un incontro storico tra il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il suo omologo cinese Xi Jinping. Al centro dei colloqui vi è stata soprattutto la ricerca di una tregua commerciale che potesse soddisfare entrambe le parti. Alla fine, si è deciso che Trump avrebbe ridotto i dazi sui prodotti provenienti dalla Cina, mentre Xi avrebbe revocato i controlli sulle esportazioni di terre rare.
A un primo sguardo, leggendo i termini dell’accordo, si potrebbe pensare che a trarne vantaggio sia stata la Cina e che gli Stati Uniti, pur di evitare il rischio di una carenza di terre rare, abbiano ceduto facendo concessioni sui dazi. Ma è davvero così? Un’analisi più approfondita dei dati rivela che la Cina non è il colosso incontrastato delle terre rare che molti immaginano e che non è affatto indispensabile per gli Stati Uniti.
Le terre rare sono oggi fondamentali per l’industria elettronica e per i prodotti ad alta tecnologia. Si ritiene comunemente che la Cina ne detenga il monopolio, controllando circa il 70% delle quote importate dagli Stati Uniti. In realtà, però, si tratta di materie prime poco lavorate, e il valore complessivo delle importazioni statunitensi di terre rare ammonta a soli 25 milioni di dollari all’anno, una cifra modesta rispetto al valore complessivo del commercio bilaterale.
Anche se Washington perdesse completamente l’accesso a queste forniture, l’impatto economico sarebbe contenuto. Le terre rare vengono infatti scambiate anche sotto forma di composti, che sono più raffinati e decisamente più rilevanti per la produzione industriale. In questo segmento, gli Stati Uniti vantano addirittura un surplus: nel 2023 le esportazioni americane di composti di terre rare hanno raggiunto i 355 milioni di dollari, quasi il doppio delle importazioni (180 milioni), con le spedizioni verso la Cina che rappresentano circa il 90% del totale.
È la Cina dipendente dagli Stati Uniti e non il contrario
Nonostante l’idea diffusa che gli Stati Uniti siano fortemente dipendenti dalla Cina per l’approvvigionamento di terre rare, la realtà è più complessa. È infatti la Cina a dipendere dagli Stati Uniti e da altri Paesi per i minerali lavorati e i prodotti ad alto valore aggiunto, indispensabili per sostenere la propria industria tecnologica e manifatturiera.
Va poi considerato che la Cina necessita di quantità di terre rare molto maggiori rispetto agli Stati Uniti, la cui domanda è legata soprattutto alla produzione militare. Una richiesta più contenuta, che può essere soddisfatta anche senza il contributo cinese. Pechino, invece, produce enormi volumi di beni di consumo che richiedono grandi quantità di questi minerali, rendendola più vulnerabile.
Se la Cina imponesse nuove restrizioni all’export di terre rare, rischierebbe di danneggiare la propria industria, oggi fortemente dipendente dai composti lavorati provenienti dall’estero. Un errore analogo era già stato commesso nel 2010, quando Pechino limitò le esportazioni per favorire la lavorazione interna: i prezzi salirono vertiginosamente, i Paesi occidentali svilupparono alternative e la domanda crollò.
L’episodio dimostrò che le terre rare non sono insostituibili e spinse gli Stati Uniti ad accelerare la ricerca di materiali alternativi. Dopo anni di tensioni e una condanna da parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, la Cina fu costretta a revocare le restrizioni. Oggi, con un deficit interno di composti di terre rare, Pechino dispone di un margine ancora minore per ripetere la stessa strategia.
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