Stipendi bassi, a rischio povertà sempre più lavoratori: è allarme in Italia

Giorgia Bonamoneta

23 Marzo 2023 - 12:13

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Allarme stipendi in Italia: anche chi lavora è a rischio povertà. Ecco come il lavoro povero condiziona il Paese e il suo futuro.

Stipendi bassi, a rischio povertà sempre più lavoratori: è allarme in Italia

In Italia è a rischio povertà o rientra nella soglia della povertà anche chi lavora. Almeno 1 lavoratore/lavoratrice su 10 è sulla soglia della povertà relativa ed è così da molti (troppi) anni. I numeri sono impressionanti tanto a livello nazionale quanto in confronto con i numeri europei. Il motivo, per semplificare, è uno e uno soltanto: stipendi bassi.

Si chiama lavoro povero ed è la condizione per la quale lavorare non basta a sopravvivere. Nell’ultimo rapporto “Disparità retributive, precarietà e lavoro nel Lazio”, per esempio, si leggeva di un aumento di lavoratori dipendenti con retribuzioni inferiori a 10 mila euro annui. Con tale budget, anche lavorando tutti i giorni, non è possibile per i più giovani lasciare il nucleo famigliare e la casa dei genitori, mentre per le famiglie con figli è impossibile rendere la propria condizione meno precaria e risparmiare fondi per il futuro.

In Italia almeno 6 milioni di lavoratori e lavoratrici (su un totale di 23 milioni) è a rischio povertà. Tra questi spiccano in negativo le donne, i giovani e gli stranieri. Sono queste le persone che, pur lavorando, sono precarie, in condizioni di part-time (o falso part-time) o hanno lavori stagionali e/o in nero.

Anche di fronte a questa realtà il governo fa difficoltà ad aprire un dibattito costruttivo sul mercato del lavoro, sul salario minimo o la settimana corta lavorativa, tanto che Giorgia Meloni ha ribadito il suo “no” secco a questi proprio al congresso della Cgil.

Povertà tra i lavoratori: stipendi troppo bassi per vivere

In Italia una buona parte dei lavoratori è un lavoratore povero, ovvero guadagna meno di 10-12 mila euro all’anno. Si tratta di una cifra irrisoria e che, in molti casi, impedisce di vivere autonomamente. Gli stipendi sono bassi, troppo bassi per vivere dignitosamente e questo è un problema decennale in Italia, che fa segnare i numeri peggiori d’Europa sugli stipendi. Se a una condizione di mancata crescita economica si aggiungono inflazione, stipendi fissi al ribasso e lavoro precario il risultato è il “lavoro povero”.

Per working poor si intende un lavoratore che non guadagna abbastanza per superare la soglia di povertà, un’analisi del fenomeno che non nasce in Italia, ma che ha tutti i connotati italiani. Infatti il nostro Paese è l’unico tra i Paesi Ocse ad aver registrato un valore negativo (-2,9%) nella variazione dei salari medi tra il 1990 e il 2020.

La povertà relativa in Italia: lavorare senza guadagnare

In Italia sono almeno 5,8 milioni i lavoratori che lavorano non per guadagnare, ma per sopravvivere. Se si guarda al fenomeno da un punto di vista sociologico si può definire il lavoro povero come un aspetto della condizione di “povertà relativa”. Si tratta di un parametro puramente statistico che stabilisce ed esprime le difficoltà economiche del singolo in rapporto alla nazione.

Infatti la povertà lavorativa può variare da condizione a condizione e non tutti hanno la stessa possibilità di vederla risolta. Può essere considerato un lavoratore povero chi guadagna meno di 10 mila euro al mese, ma non è a rischio di povertà perché ancorato al proprio nucleo famigliare. In questo caso la narrazione italiana delinea spesso l’immagine dei mammoni o dei giovani pigri, non raccontando però l’altra faccia della medaglia, ovvero gli stipendi bassi che rendono impossibile l’indipendenza abitativa ed economica.

Un’altra categoria a rischio povertà sono le famiglie con figli, anche con due redditi. Se questi sono bassi, inferiori ai 1.000 euro mensili come spesso accade per lavori poco specializzati (senza una soglia di salario minimo), la povertà relativa investe anche i minori.

L’Italia non cresce: la fuga o la soluzione

In Italia il Pil pro capite è allo stesso livello del 1999. Nel resto d’Europa i salari aumentano, mentre in Italia no e il motivo, secondo alcuni, è la produttività. La formula è così descritta: più si produce, più l’azienda guadagna, più gli stipendi possono aumentare.

Ma da cosa dipende la produttività? Qui casca l’asino. Infatti la produttività non dipende dalla pigrizia dei lavoratori - anche se stimolare la flessibilità oraria come nel caso della settimana corta lavorativa ha dato risultati in questo senso - ma dagli investimenti nella ricerca, nella tecnologia, nella formazione dei lavoratori e molto altro.

Secondo Andrea Garnero, economista dell’OCSE, un rallentamento della crescita della produttività è un fenomeno globale e in l’Italia si aggiungono problematiche come l’inefficienza del settore pubblico, una scarsa meritocrazia e una contrattazione aziendale poco sviluppata. Sono tutti aspetti sui quali si può lavorare o il rischio è la tanto temuta “fuga di cervelli”, ma anche fuga di braccia.

Sono non più solo i giovani a fuggire dal Paese, non per voglia di avventura, ma per necessità di sopravvivenza. All’estero, a parità di mansioni e competenze, si guadagna di più, si lavora meglio e si vive più felici (l’Italia non si comporta bene su quest’ultimo parametro). Un Paese che si svuota perde ricchezza, ma nessuno ha ancora messo mani a soluzioni concrete, come al monitoraggio dei contratti (finti part-time, assenza di diritti quali la malattia o congedi parentali, parità salariale e bassa retribuzione) o del lavoro in nero.

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# Lavoro

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