Home > Attualità > Politica Internazionale > Segnali sull’Ucraina: sei indizi, tra Pace o Tempesta per l’Europa

Segnali sull’Ucraina: sei indizi, tra Pace o Tempesta per l’Europa

martedì 12 marzo 2024, di Guido Salerno Aletta

Il vento sta cambiando per il conflitto in Ucraina: sembra quasi che ci si stia preparando al cambio di mano che avverrebbe se alla Presidenza degli Usa venisse rieletto Donald Trump.

Non nuovo alle uscite ad effetto, nel corso della sua campagna elettorale Trump è stato tranchant: se fosse ci fosse stato lui al posto di Joe Biden nel 2022, la invasione russa dell’Ucraina non sarebbe stata lanciata; e, comunque, ha promesso che, se venisse rieletto, la guerra finirebbe in un paio di giorni.
Ci sono diversi segnali da cogliere.

In primo luogo, abbandona il campo Victoria Nuland, un vero e proprio falco della politica estera americana, che nell’Amministrazione Biden ha ricoperto l’incarico di Sottosegretario di Stato per gli affari politici a partire dal 3 maggio 2021 e di vicesegretario di Stato ad interim dal 29 luglio 2023. Le sue inattese dimissioni, chissà se richieste, sono state annunciate direttamente dal suo diretto superiore, il Segretario di Stato Antony Blinken. Fatto sta che in precedenza la Nuland in Ucraina aveva avuto un ruolo decisivo, visto che era stata la regista della rivolta dell’Euromaidan che tra la fine del 2013 ed il febbraio del 2014 riuscì sostituire il Premier filorusso Yanukovych, contrario all’ingresso del Paese nell’Unione europea e nella NATO, con un altro assai più filoccidentale Yatsenyuk.

Questa uscita di scena della Nuland sembra prefigurare la prosecuzione del disimpegno dell’Amministrazione Biden, alle prese con il voto contrario per nuovi aiuti militari all’Ucraina su cui si sono schierati al completo i Repubblicani: insomma, dei 60 miliardi di aiuti già previsti per il 2024, Kiev dovrà al momento farne a meno.

C’è un secondo dato, che riguarda lo schieramento navale americano: ad ottobre del 2023, la portaerei Gerald Ford aveva fatto ingresso nel Mediterraneo, insieme alla consistente flotta che la accompagna, per presidiarne il fronte meridionale dopo la sanguinosissima sortita i Hamas in terra di Israele. Il suo ritiro, annunciato ai primi dello scorso gennaio nonostante la prosecuzione delle operazioni condotte dall’esercito israeliano per sradicare Hamas dalla Striscia di Gaza, significa che non si teme più un allargamento del conflitto in quello scacchiere, che è sempre presidiato nel Golfo Persico dall’altra portaerei statunitense, la Eisenhower. Ma c’è un altro aspetto da considerare: sta diventando evanescente l’effetto di deterrenza di questo dispiegamento navale americano, visto che i ribelli Houti continuano a lanciare sortite dallo Yemen del Sud, colpendo navi e tranciando cavi sottomarini nello Stretto di Aden che dà accesso al Mar Rosso.

Questione numero tre: il Premier ucraino Volodymyr Zelensky ha revocato Valerij Zalužnyj dal suo incarico di Comandante delle Forze armate. Erano mesi che si dava conto di contrasti, sia per la sorte della controffensiva che non ha dato gli esiti sperati, sia soprattutto per la confusa ritirata da Kharkiv, una cittadina presa d’assalto dai Russi. Una debacle che ha oscurato il suo più grande successo: l’ingresso trionfale nell’area occidentale di Kharkov, città divisa in due dal Dniepr, che era stata lasciata libera dai Russi in quanto indifendibile. Un attacco ucraino li avrebbe mandati inesorabilmente a fondo nel fiume. C’è di vero anche che Zalužnyj era straordinariamente amato dalle truppe, divenendo un idolo tra la popolazione per essere riuscito a fermare l’invasione russa: nelle elezioni politiche avrebbe potuto prevalere su Zelensky, e questo era una ragione in più per sostituirlo. Andrà a Londra, come Ambasciatore: da lì, isolato, non potrà più fare ombra né tessere la sua tela di relazioni.

La questione delle trattative di pace si articola su due vicende.

La quarta novità riguarda infatti la visita resa da Zelensky al Premier turco Rajipp Erdogan, che ha sempre svolto un ruolo di mediazione tra Ucraina e Russia, soprattutto per consentire le esportazioni di cereali ucraini via nave, attraversando in sicurezza il Mar Nero. Di recente, Erdogan aveva annunciato la volontà della Turchia di essere sede di colloqui per esplorare la possibilità di comporre il conflitto in corso: evidentemente, Zelensky è andato a trovare Erdogan per chiedere garanzie sull’apertura di un tavolo di confronto. Di certo, anche altri Paesi saranno invitati come garanti, per una parte e per l’altra: il metodo, prima del merito.

Il quinto avvenimento, davvero eclatante, è stato rappresentato dall’intervista resa da Papa Francesco ad una televisione svizzera, non per caso scegliendo un Paese neutrale da secoli, per sollecitare una apertura al processo di pace da parte dell’Ucraina. Il vero coraggio, quando si sta soccombendo con la perdita continua di vite umane, è quello di alzare la bandiera bianca. Inutile raccontare delle critiche mosse al messaggio papale, prima tra tutti quella di Zelensky che ha replicato affermando che l’Ucraina ha una sola bandiera, quella gialla e blu. Il Vaticano, è fuori dubbio, si è dunque schierato decisamente a favore di una soluzione non militare della guerra.
L’ultima novità, la sesta, è stata rappresentata dalla visita compiuta a Trump da parte dell’ex-premier ungherese Orbàn, perorando una prospettiva di pace. Un incontro drammatico, visto che il primo ha annunciato che, se dovesse essere rieletto, non darà più “un centesimo” a Kiev, mentre il secondo si è rallegrato per questa “prospettiva di pace”, una sorte segnata dalla impossibilità di continuare la guerra.

Prepariamoci al peggio.

Andrà a finire come nel 2008: sapendo che le elezioni americane sarebbero state vinte da Barak Obama, George Bush Jr. lasciò fallire la Lehman Brothers, che poteva essere salvata con il piano TARP già predisposto dal Segretario al Tesoro Paulson.
Per Obama, a gennaio del 2009, si presentò uno scenario catastrofico da gestire, ma soprattutto iniziò un periodo caotico per l’Europa che sin dall’inizio del 2010 si vide esplodere tutte le contraddizioni dell’euro che erano state nascoste per anni sotto il tappeto: Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna ed Italia furono prese di mira dalla speculazione.

Il “contagio” dello spread impazzò per anni, minando la tenuta della moneta unica, fino al Whatever it Takes lanciato da Mario Draghi a Londra nel luglio del 2012.
Furono anni di follia.

La prospettiva, ora, è quella di un ritiro strategico statunitense dallo scacchiere europeo, con l’Unione che entrerà in convulsione, dividendosi tra interventisti e pacifisti, tra chi vuole l’Esercito europeo e chi non vuole accettare un ruolo direttivo della Francia, che approfitta della debolezza tedesca per ribaltare l’asse in suo favore.
In gioco ci sono già la Moldavia e l’Armenia: al contorno del Mar Nero, le aree a rischio di crisi si moltiplicano.
In questo falò che viene appiccato, l’Europa si troverà sola al di qua di una nuova Cortina di ferro, ma senza il sostegno statunitense ricevuto ai tempi della Guerra Fredda.

Il prezzo politico da pagare per sostenere un duro confronto militare con la Russia sarà immenso: o nascerà il super Stato europeo che in tanti vagheggiano, o l’Unione europea andrà in pezzi.
L’America torna ad isolarsi: Vita mea, Mors tua.

Un messaggio, un commento?

moderato a priori

Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Chi sei?
I tuoi messaggi

Questo form accetta scorciatoie di SPIP [->url] {{bold}} {italic} <quote> <code> e il codice HTML <q> <del> <ins>. Per creare un paragrafo lasciate semplicemente una riga vuota.