Guida completa al referendum sulla separazione delle carriere, atteso per il 2026. Cosa cambia se vince il Sì o il No?
Per il nodo della separazione delle carriere si va al referendum costituzionale. Ma cosa prevede, quando sarà e cosa succede se vince il Sì o il No?
Partiamo dal contesto. Giovedì 18 settembre la Camera votato sulla riforma costituzionale che inserisce nel sistema italiano la separazione delle carriere per i magistrati, ma senza raggiungere una maggioranza di due terzi. Ora la palla passa al Senato, che si esprimerà tra il 21 e il 22 ottobre, ma è certo che si renderà necessario un referendum confermativo, come previsto dall’articolo 138 della Costituzione.
Secondo l’articolo, le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali devono essere approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Se nella seconda votazione in ciascuna delle Camere non viene raggiunta la maggioranza di due terzi dei suoi componenti, le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare.
Il quesito del referendum sulla separazione delle carriere non è ancora stato reso noto e, ricordiamo, non vi è un quorum. La validità del risultato non dipende dal numero di votanti, ma solo dalla maggioranza dei voti validamente espressi, al netto di schede bianche o nulle.
La data del referendum separazione carriere
Anzitutto, occorre attendere il via libera definitivo alla riforma sulla separazione delle carriere da parte del Senato, stimato entro la fine di ottobre. Dopodiché si apre una finestra di tre mesi, durante la quale è possibile fare richiesta di referendum,
Secondo le stime, il referendum sulla separazione delle carriere avrà luogo nella primavera del 2026.
Cosa prevede la riforma sulla separazione delle carriere
La riforma prevede che fin dall’inizio della carriera il magistrato debba scegliere se essere giudice o pubblico ministero, senza la possibilità di cambi di ruolo nel corso della vita professionale. Attualmente, grazie a leggi come quella del 2006 (riforma Castelli) e più recentemente la riforma Cartabia del 2022, è possibile cambiare funzione (da PM a giudice o viceversa), anche se con limitazioni (il passaggio è consentito una sola volta, va fatto entro i primi 10 anni di carriera, prevede idoneità, formazione e, in certi casi, cambio di sede).
Viene inserito anche il raddoppio del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), uno per la magistratura giudicante e uno per quella requirente, insieme alla creazione di un’Alta Corte disciplinare.
Perché votare Sì al referendum separazione carriere
Una separazione delle carriere dei magistrati garantirebbe una maggiore imparzialità dei giudici giudicanti, eliminando il sospetto che chi abbia esercitato la funzione requirente possa avere condizionamenti legati al passato, affiliazioni o una mentalità “accusatoria”. E rafforzerebbe il principio del giusto processo, inserito nella Costituzione all’articolo 111, che richiede che il processo si svolga davanti a un giudice terzo e imparziale.
I favorevoli alla riforma sono certi che migliorerebbe la trasparenza e la chiarezza delle responsabilità, oltre che a semplificare le linee istituzionali e a rendere più netti i ruoli.
Con l’approvazione della riforma, l’Italia si allineerebbe ad altri ordinamenti che già separano nettamente queste funzioni, un cambiamento interpretabile come un passo verso un sistema giudiziario più moderno e in grado di rafforzare la fiducia dei cittadini.
Perché votare No al referendum separazione carriere
Non mancano, tuttavia, dubbi e critiche. Una prima perplessità riguarda la possibilità che il pubblico ministero, separato fin dall’inizio, diventi più vulnerabile a pressioni politiche, dando ancora più forza all’influenza del potere esecutivo o legislativo sulle procure.
I contrari alla riforma sono convinti vi sia il rischio che nascano squilibri numerici o qualitativi. Se molti magistrati dovessero scegliere una carriera piuttosto che l’altra, si potrebbe avere carenza di personale in un ramo, con conseguenti inefficienze.
La magistratura è una categoria complessa i ruoli diversi (giudice/PM) richiedono sensibilità, competenze e culture diverse, ma ciò non significa necessariamente che debbano essere separati fin dall’inizio. C’è chi pensa che l’esperienza in una funzione possa arricchire l’altra, o che il passaggio di ruolo possa essere utile in certi casi.
Perché un referendum confermativo?
Il referendum confermativo è uno strumento di democrazia diretta che consente ai cittadini di ratificare o respingere una legge o una modifica costituzionale già approvata dal Parlamento. La differenza principale rispetto al referendum abrogativo (che serve a cancellare leggi esistenti) sta nel fatto che, con il referendum confermativo, il popolo italiano deve approvare una decisione legislativa che è già stata presa dai rappresentanti eletti.
Il risultato del referendum confermativo è vincolante: se la maggioranza dei votanti approva la modifica, essa diventa definitiva; se non viene approvata, la modifica non entra in vigore.
Ricordiamo che questa tipologia di referendum può essere richiesta solo se i sì della Camera e del Senato non superano i due terzi dei componenti. Per arrivare al referendum occorre tuttavia che sia richiesto da 5.000 elettori, o da 5 Consigli regionali o da un quinto dei membri di una delle Camere. Le opposizioni hanno già riferito che provvederanno a raccogliere le firme dei parlamentari - ne servono almeno 80/400 fronte deputati o almeno 41/205 fronte senatori.
Quindi, il referendum confermativo non è un’iniziativa popolare diretta, ma una forma di ratifica democratica delle decisioni parlamentari.
Gli altri referendum confermativi nella storia italiana
Nel corso della storia repubblicana italiana, i referendum confermativi si sono svolti solo in poche occasioni, ma ogni volta hanno avuto un impatto politico e istituzionale non indifferente. Il primo esempio risale al 2001, quando fu sottoposta a referendum la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dal centrosinistra, che mirava a rafforzare l’autonomia delle Regioni. In quell’occasione vinse il Sì, anche se con una partecipazione piuttosto bassa. La svolta fu importante: un cambiamento nella distribuzione dei poteri tra Stato e Regioni, ma nel tempo emersero anche difficoltà applicative e critiche sulla chiarezza del nuovo assetto.
Diverso fu il clima nel 2006, quando il centrodestra, allora guidato da Silvio Berlusconi, propose una riforma costituzionale molto più ampia e radicale, che includeva la trasformazione del Senato in una camera federale, il rafforzamento del potere del premier e una ridefinizione dei rapporti tra Stato e autonomie. Il referendum fu respinto con decisione dagli elettori, con il No che vinse con oltre il 60% dei voti.
Il terzo grande appuntamento con un referendum confermativo avvenne nel 2016. Questa volta fu il governo Renzi a proporre una riforma ambiziosa, che puntava a superare il bicameralismo perfetto e a ridisegnare la funzione del Senato, oltre ad introdurre cambiamenti nella composizione degli organi costituzionali e nel processo legislativo. Renzi, però, scelse una strategia rischiosa: personalizzò la campagna, promettendo le dimissioni in caso di sconfitta. Il voto, da consultazione costituzionale, si trasformò presto in un giudizio sull’operato del governo. Alla fine, il No trionfò con quasi il 60% dei voti, segnando non solo la fine della riforma, ma anche la fine del governo Renzi, che si dimise la notte stessa del referendum.
Più recente, e molto diverso per tono e contenuto, è stato il referendum del 2020, voluto dal Movimento 5 Stelle e sostenuto anche da altri partiti, che proponeva una semplice ma simbolica riduzione del numero dei parlamentari. Stavolta la campagna fu molto più distesa, meno polarizzata e con un consenso trasversale. Il Sì vinse nettamente, con circa il 70% dei voti, segnando l’unico caso recente in cui una riforma costituzionale ha ottenuto il via libera popolare senza particolari tensioni politiche.
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