Perché la pace in Palestina è ancora lontana: cosa non funziona nel piano Trump

Luna Luciano

11 Ottobre 2025 - 13:21

Il piano Trump promette tregua e pace tra Israele e Hamas, ma dietro l’accordo si nascondono nodi irrisolti che rendono la pace in Palestina ancora un miraggio: scopriamo perché.

Perché la pace in Palestina è ancora lontana: cosa non funziona nel piano Trump

Nonostante il piano Trump e la ratifica del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, la vera pace in Palestina è ancora lontana.

Se in queste ore a Gaza si sta celebrando la fine non di una guerra ma di un genocidio, come dimostrato dai video apparsi online in queste ore di bambini felici e di oltre 200mila persone, pronte a tornare a quel che resta delle loro case, è anche vero che questa promessa di pace nasconde gravi fragilità.

Il piano tanto voluto dal presidente degli Stati Uniti, e tanto celebrato dal Governo e da Giorgia Meloni – denunciata alla Corte penale internazionale per complicità nel genocidio palestinese – rischia di essere uno specchio per le allodole: ci sono ben tre punti che non funzionano e che rendono la pace per Gaza più un miraggio che una possibilità concreta.

Dopo oltre due anni di bombardamenti incessanti con 67mila morti, violazioni del diritto internazionale e un piano di pulizia etnica denunciato da più organizzazioni internazionali, Israele dice di essere pronta a cessare il fuoco. Eppure non è così: i raid militari sono proseguiti anche dopo la firma del 9 ottobre e non solo sulla Striscia. Nella notte del 10 ottobre, infatti, Tel Aviv ha colpito anche il Libano, segno che la tregua è tutt’altro che stabile.

Insomma, per quanto si parli di pace, continuano gli attacchi militari, mentre Israele - come previsto dal piano Trump - chiede la totale demilitarizzazione di Hamas, che non sembra disposto a rinunciare alle uniche armi di difesa contro Tel Aviv. A questo punto non resta che domandarsi cosa non funziona nel piano Trump e perché anche questo piano viola la legge internazionale. Di seguito tutto quello che serve sapere sul perché la pace in Palestina è ancora così lontana.

Cosa prevede il piano Trump?

Il cosiddetto piano di pace di Donald Trump per la Striscia di Gaza è stato presentato come una svolta storica per mettere fine al conflitto tra Israele e Hamas. Firmato dopo mesi di trattative, il cessate il fuoco è entrato in vigore il 9 ottobre 2025, che potrebbe diventare una giornata storica, ma - come ricordano gli esperti di Limes - guai a chiamarla “pace”. L’accordo, composto da venti punti, prevede alcune misure immediate e altre di medio periodo.

Nella prima fase, Israele e Hamas si impegnano a rispettare un cessate il fuoco totale e a procedere con uno scambio di prigionieri: il rilascio di circa 48 ostaggi israeliani, in cambio della liberazione di quasi 2.000 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. A ciò si aggiunge la promessa di un ritiro parziale dell’esercito israeliano dal territorio di Gaza e la riapertura dei corridoi umanitari per far entrare aiuti e medicinali nella Striscia, stremata da carestie e bombardamenti, come tanto si è battuta la Sumud Flotilla.

Tuttavia, il governo israeliano ha già chiarito che non ha intenzione di rinunciare totalmente al controllo militare Gaza, contraddicendo di fatto lo spirito dell’accordo. Insomma, il piano presentato da Trump come il primo passo verso una “nuova era di stabilità” in Medio Oriente, arrivando ad autocandidarsi per il Premio Nobel per la Pace, in realtà è alquanto instabile: il piano ignora alcune questioni fondamentali e lascia irrisolti nodi che potrebbero farlo fallire ancor prima di entrare pienamente in vigore.

Perché la pace in Palestina è lontana: i tre punti che non funzionano nel piano Trump

Sebbene il piano Trump venga presentato come una soluzione “bilanciata”, in realtà la pace è molto più fragile di quanto sembri. Tre nodi principali minano la credibilità e la sostenibilità dell’accordo:

  • Il ritiro di Israele: nonostante l’accordo preveda una riduzione delle forze israeliane nella Striscia, Tel Aviv ha dichiarato di voler mantenere una presenza militare nel 53% di Gaza. Ciò significa che, di fatto, la Striscia resterà sotto controllo israeliano, ma senza un ritiro completo, non esiste una vera possibilità di pace per il popolo palestinese.
  • Il disarmo incompleto di Hamas. Questo punto si collega direttamente a quello precedente. L’organizzazione ha accettato di consegnare, infatti, solo le armi pesanti, ma non quelle leggere. Le Brigate al-Qassam rifiutano di rinunciare ai Kalashnikov finché Israele continuerà a occupare parte del territorio palestinese: come si chiedere non solo al braccio armato ma all’intera popolazione di rinunciare a quelle che per ora sembrano le uniche armi di difesa dai raid israeliani - che continuano a colpire Gaza anche dopo la firma del cessato il fuoco, come testimoniato da Sami Abu Omar.
  • Lo scambio di prigionieri e la questione politica. Tra i 2.000 detenuti palestinesi di cui Hamas chiede il rilascio sono presenti due figure simboliche: Marwan Barghouti e Ahmad Sa’adat, entrambi detenuti da anni e considerati leader della resistenza palestinese.

Come ricorda il giornalista e podcaster Valerio Nicolisi, Barghouti , soprannominato il Mandela palestinese, è un ex leader laico di Fatah (in arabo al-Fatḥ, appartenente all’OLP) che è stato condannato a cinque ergastoli. Tuttavia, proprio Barghouti nel 2021 avrebbe vinto le elezioni candidandosi dal carcere, dimostrando di essere un leader per la popolazione palestinese, ed è proprio per questo il governo israeliano non ha intenzione di rilasciarlo. Sa’adat , invece, è l’ex segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, condannato perché avrebbe presuntamente organizzato un attentato contro un ministro israeliano. Tel Aviv quindi rifiuta di liberare chi potrebbe veramente rappresentare e porsi alla guida di uno Stato palestinese. Non solo, ha dichiarato che non restituirà i corpi dei due leader di Hamas, Yahya Sinwar e Mohammed Sinwar, evitando che il luogo di sepoltura diventino un simbolo della resistenza palestinese.

Questi tre punti mostrano quindi che il cessate il fuoco è più un fragile compromesso che una vera pace. Le bombe potrebbero cessare temporaneamente, ma senza una soluzione politica stabile, ogni tregua è destinata a dissolversi.

Gaza, la pace è lontana: ancora una volta si voltano le spalle allo Stato di Palestina

Il grande assente del piano Trump è, ancora una volta, lo Stato di Palestina. In nessuno dei venti punti si parla esplicitamente della nascita di uno Stato palestinese sovrano, con confini riconosciuti e capitale a Gerusalemme Est. Eppure, questa è la condizione essenziale per una pace duratura. Senza uno Stato indipendente, il rapporto con Israele resterà strutturalmente impari: un popolo occupato non può negoziare da pari a pari con il proprio occupante colonialista.

Ancora una volta, si preferisce parlare di amministrazioni provvisorie e di comitati di tecnocrati nominati da Washington, anziché di autodeterminazione palestinese. Il piano Trump prevede che la gestione di Gaza venga affidata a una struttura guidata da miliardari e funzionari graditi agli Stati Uniti, a Israele e ai Paesi del Golfo, ma senza rappresentanti reali della Striscia. È l’ennesima forma di commissariamento politico, che priva i palestinesi della possibilità di decidere del proprio futuro, come dal 1920 con il mandato britannico.

Questa impostazione riflette ancora una volta un retaggio coloniale che l’Occidente non ha mai davvero superato. Per ottant’anni, la Palestina ha vissuto in un regime di apartheid riconosciuto dalle stesse Nazioni Unite, mentre l’Europa e gli Stati Uniti hanno spesso preferito chiudere gli occhi di fronte alle violazioni israeliane del diritto internazionale. Oggi, con il piano Trump, quella stessa logica si può ripetere con Israele che occupando oltre il 50% della Striscia potrà mantenere il proprio controllo economico e militare sulla Striscia, ma questa volta con il benestare formale di Washington e l’appoggio di investitori stranieri.

La cosiddetta “pace di Trump” rischia così di trasformarsi nell’ennesima legittimazione dell’occupazione, un accordo di facciata che congela il conflitto anziché risolverlo. Senza riconoscere lo Stato di Palestina, ogni promessa di pace resta una menzogna diplomatica. E ricordiamolo la soluzione non sarà mai quella di “due Popoli, due Stati”, come spiegato da Ilan Pappé.

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