Nel 2011 era simbolo di crisi e allarme, oggi il divario tra BTP e Bund è meno indicativo della solidità economica. Eppure, la politica italiana continua a celebrarlo o temerlo.
Nel cuore della crisi dell’eurozona del 2011, mentre l’Italia fronteggiava il rischio concreto di default e la BCE lottava per tenere unita la moneta unica, una parola straniera fece improvvisamente irruzione nel lessico comune e nel dibattito politico nazionale: spread.
Inteso come la differenza tra il rendimento dei titoli di Stato italiani a dieci anni (BTP) e i corrispettivi tedeschi (Bund), il termine diventò presto sinonimo di paura, incertezza e instabilità. Lo spread non era solo un indicatore finanziario: era diventato un simbolo della credibilità del Paese, un’unità di misura del rischio, e persino un’arma retorica usata da giornali e partiti.
Oggi, oltre dieci anni dopo, l’Italia è profondamente cambiata, ma lo spread continua a vivere come un’ossessione politica. Eppure, il suo significato economico si è drasticamente ridotto. A dimostrarlo è la recente discesa del differenziale sotto i 100 punti base — un evento raro — che ha spinto la premier Giorgia Meloni a celebrare il fatto in Parlamento come una prova della solidità e dell’affidabilità riconquistata dal Paese. Ma la realtà, spiegano molti economisti, è ben diversa. [...]
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