Pensioni, se hai iniziato a lavorare in questi anni sei sfortunato. Ci vai più tardi di tutti

Simone Micocci

27 Agosto 2025 - 09:33

Più sei giovane più rischi di andare tardi in pensione. Se sei nato in questi anni puoi considerarti sfortunato.

Pensioni, se hai iniziato a lavorare in questi anni sei sfortunato. Ci vai più tardi di tutti

L’età pensionabile tende ad aumentare con il passare degli anni, complice una combinazioni di fattori che va a penalizzare chi è entrato da poco nel mercato del lavoro, il quale rischia di doverci restare più tempo di quanto immagina. Se negli anni ‘80 e ’90 non era raro andare in pensione anche a 50 anni, oggi questa possibilità è alquanto remota tanto che, come certificato dall’Inps nell’ultimo Osservatorio, oggi l’età media di pensionamento è di circa 64 anni.

Ma attenzione, perché è destinata ad aumentare per una serie di fattori: da una parte l’adeguamento biennale con le speranze di vita che per quanto il governo lo voglia congelare per il 2027 non si potrà bloccare per sempre, dall’altra il fatto che per accedere alla pensione di vecchiaia a 67 anni bisognerà raggiungere una certa soglia economica, obiettivo non semplice per chi ha avuto una carriera lavorativa a intermittenza e con stipendi medio bassi.

Una condizione, esclusiva per coloro che hanno iniziato a lavorare dopo il 1996, che porterà in alcuni casi a rinviare il pensionamento a dopo i 70 anni. Insomma, se sei nato tra gli anni ‘80 e 2000 per te la pensione arriverà sempre più tardi e se è vero che si vive di più, almeno secondo le tendenze, va detto che questo tempo lo si dovrà passare in molti casi sul posto di lavoro al fine di maturare i requisiti necessari per andare in pensione.

Perché si andrà in pensione sempre più tardi

Uno dei punti cardine della legge Fornero è il meccanismo che collega l’età di pensionamento all’andamento delle speranze di vita. In pratica, ogni due anni i requisiti per l’accesso alla pensione vengono rivisti alla luce dei dati Istat: se si vive di più, aumenta anche il tempo in cui si percepisce l’assegno e, di conseguenza, cresce la spesa a carico dell’Inps. Per mantenere sostenibile il sistema previdenziale, la legge stabilisce che l’uscita dal lavoro debba slittare in avanti, così da bilanciare l’allungamento della vita media con un periodo più breve di godimento della pensione.

Dopo un blocco di otto anni, dovuto perlopiù dallo scoppio della pandemia, dal 2027 tornerà l’adeguamento. Secondo le ultime stime Istat, nel biennio 2027-2029 ci sarà un incremento di circa 3 mesi, anche se il governo ha già annunciato l’intenzione di congelare questo aumento. Tuttavia, un blocco definitivo è impossibile: eliminare il meccanismo costerebbe troppo e metterebbe a rischio la stabilità finanziaria della previdenza.

La tendenza di lungo periodo, confermata dalle stime Istat, è chiara: le speranze di vita continueranno a crescere di circa 2 mesi ogni biennio. Ciò significa che i requisiti per la pensione di vecchiaia tenderanno a salire progressivamente, spostando in avanti l’uscita dal mondo del lavoro.

E chi è più sfortunato perché andrà in pensione più tardi? Se guardiamo solo alla pensione di vecchiaia, che oggi si raggiunge a 67 anni di età e 20 anni di contributi, i più penalizzati sono senza dubbio i nati dagli anni ’80 in poi. Per loro l’età di uscita non sarà più 67 anni, ma 69 anni per chi è nato negli anni ’80, oltre i 70 anni per i nati negli anni ’90, fino a proiezioni che superano i 71 anni per chi è nato dopo il 2000. Al contrario, chi è nato negli anni ’60 o ’70 potrà ritirarsi con requisiti molto più favorevoli, vicini agli attuali.

Quindi, più si è giovani oggi e più tardi si arriverà a raggiungere i requisiti della pensione di vecchiaia, perché l’adeguamento con le speranze di vita sposta costantemente in avanti il traguardo.

Il problema della soglia minima per i contributivi puri

Oltre all’adeguamento con le speranze di vita, c’è un altro ostacolo che rischia di allontanare la pensione per le generazioni più giovani: la soglia economica prevista per la pensione di vecchiaia nel sistema contributivo puro.

Chi ha iniziato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996, non avendo quindi maturato requisiti nel periodo precedente, rientra interamente nel calcolo contributivo e non può andare in pensione a 67 anni solo con 20 anni di versamenti. Serve infatti che l’importo dell’assegno maturato sia almeno pari al valore dell’Assegno sociale.

Nel 2025 questo valore è fissato a 538,69 euro al mese, pari a circa 6.992,97 euro annui. Significa che un “contributivo puro”, al momento del pensionamento, deve aver accumulato un montante sufficiente a garantire almeno questa cifra. Tradotto in numeri: servono circa 124.677 euro di montante contributivo, che equivalgono a 6.234 euro di contributi annui per vent’anni consecutivi. Per un dipendente, ciò implica una retribuzione media di circa 18.900 euro lordi annui (circa 950 euro netti al mese). Per un autonomo iscritto alla Gestione separata, invece, la soglia è ancora più alta: circa 24.900 euro lordi annui, ovvero oltre 2.000 euro lordi al mese.

Ed è qui che emergono le difficoltà. Chi ha avuto carriere discontinue, lunghi periodi di inattività, contratti part-time o stipendi bassi rischia seriamente di non raggiungere la soglia minima richiesta dalla normativa. In quel caso, l’unica alternativa è rimandare l’uscita dal lavoro fino a 71 anni, età prevista per la pensione di vecchiaia contributiva che diversamente non prevede alcun requisito economico. Anche questa misura, però, è oggetto di adeguamento con le speranze di vita, quindi più passano gli anni e più la soglia anagrafica aumenta tanto da arrivare persino a 75 anni per i nati negli anni 2000.

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