Hai iniziato a lavorare da poco? Rischi di doverlo fare per molto tempo perché l’età per la pensione si allunga sempre di più.
L’età per andare in pensione si sta spostando sempre più in avanti, a causa di diversi fattori che finiscono per penalizzare soprattutto chi è entrato da poco nel mondo del lavoro e, allo stesso tempo, rischia di doverci rimanere più a lungo del previsto.
Se negli anni ’80 e ’90 non era insolito lasciare il lavoro intorno ai 50 anni, oggi uno scenario simile è quasi impossibile, tanto che, come confermano i dati dell’Inps, l’età effettiva di uscita si aggira intorno ai 64 anni.
Ma non è finita qui, perché le prospettive future indicano un ulteriore incremento: da un lato l’adeguamento automatico alle speranze di vita, che il governo potrà rinviare solo per un periodo limitato, dall’altro l’obbligo di raggiungere una determinata soglia economica per accedere alla pensione di vecchiaia a 67 anni, traguardo difficile per chi ha carriere discontinue o salari bassi.
Un vincolo che riguarda esclusivamente chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996 e che, in mancanza dei requisiti, comporterà un inevitabile slittamento del pensionamento oltre i 70 anni.
In poche parole, per chi è nato tra gli anni ’80 e il 2000 la pensione si allontana sempre di più e, se da un lato la vita media si allunga, dall’altro una parte consistente di questo tempo dovrà essere spesa continuando a lavorare, così da maturare i requisiti richiesti.
Perché la pensione si allontanerà sempre di più
Uno degli aspetti centrali della legge Fornero è il meccanismo che lega l’età di uscita dal lavoro all’evoluzione della speranza di vita.
In sostanza, ogni due anni i requisiti vengono aggiornati in base ai dati Istat: se l’aspettativa aumenta, cresce anche il periodo in cui si percepisce la pensione e, di conseguenza, la spesa a carico dell’Inps.
Per garantire l’equilibrio del sistema previdenziale, la normativa impone quindi uno slittamento in avanti dell’età pensionabile, riducendo il tempo di godimento dell’assegno.
Dopo un congelamento di otto anni, dovuto soprattutto alla pandemia, dal 2027 torneranno gli adeguamenti. Le stime Istat indicano che nel biennio 2027-2028 ci sarà un aumento di circa 3 mesi, sebbene l’esecutivo abbia già anticipato la volontà di rinviare l’incremento. Tuttavia, un blocco permanente resta irrealizzabile: cancellare il meccanismo avrebbe un costo eccessivo e metterebbe a rischio la tenuta economica della previdenza.
Il quadro di lungo periodo, confermato dalle proiezioni Istat, è netto: l’aspettativa di vita continuerà a crescere di circa due mesi ogni biennio. Questo comporterà che i requisiti per la pensione di vecchiaia tenderanno a salire gradualmente, spostando sempre più avanti l’età di ritiro dal lavoro.
Chi invece sarà più svantaggiato? Considerando la pensione di vecchiaia, fissata oggi a 67 anni di età con 20 anni di contributi, i più colpiti saranno i nati dagli anni ’80 in poi.
Per loro l’uscita non avverrà a 67 anni, ma intorno ai 69 per i nati negli anni ’80, oltre i 70 per quelli degli anni ’90 e persino oltre i 71 anni per chi è venuto al mondo dopo il 2000. Al contrario, i lavoratori nati negli anni ’60 e ’70 potranno lasciare con condizioni molto più vicine a quelle attuali.
Il problema della soglia minima per i contributivi puri
Oltre all’adeguamento con le speranze di vita, c’è un altro ostacolo che rischia di allontanare la pensione per le generazioni più giovani: la soglia economica prevista per la pensione di vecchiaia nel sistema contributivo puro.
Chi ha iniziato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996, non avendo quindi maturato requisiti nel periodo precedente, rientra interamente nel calcolo contributivo e non può andare in pensione a 67 anni solo con 20 anni di versamenti. Serve infatti che l’importo dell’assegno maturato sia almeno pari al valore dell’Assegno sociale.
Nel 2025 questo valore è fissato a 538,69 euro al mese, pari a circa 6.992,97 euro annui. Significa che un “contributivo puro”, al momento del pensionamento, deve aver accumulato un montante sufficiente a garantire almeno questa cifra. Tradotto in numeri: servono circa 124.677 euro di montante contributivo, che equivalgono a 6.234 euro di contributi annui per vent’anni consecutivi. Per un dipendente, ciò implica una retribuzione media di circa 18.900 euro lordi annui (circa 950 euro netti al mese). Per un autonomo iscritto alla Gestione separata, invece, la soglia è ancora più alta: circa 24.900 euro lordi annui, ovvero oltre 2.000 euro lordi al mese.
Ed è qui che emergono le difficoltà. Chi ha avuto carriere discontinue, lunghi periodi di inattività, contratti part-time o stipendi bassi rischia seriamente di non raggiungere la soglia minima richiesta dalla normativa. In quel caso, l’unica alternativa è rimandare l’uscita dal lavoro fino a 71 anni, età prevista per la pensione di vecchiaia contributiva che diversamente non prevede alcun requisito economico. Anche questa misura, però, è oggetto di adeguamento con le speranze di vita, quindi più passano gli anni e più la soglia anagrafica aumenta tanto da arrivare persino a 75 anni per i nati negli anni 2000.
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