Andare in pensione prima nel 2026? Claudio Durigon, sottosegretario al ministero del Lavoro, fa chiarezza sul «come».
Inizia a delinearsi la prossima riforma delle pensioni, con il sottosegretario al ministero del Lavoro, Claudio Durigon, che nel corso del Meeting di Rimini ha svelato nei dettagli le intenzioni del governo Meloni in vista dell’inizio dei lavori per la legge di Bilancio.
Dichiarazioni importanti in quanto forniscono maggiori indicazioni su cosa succederà sul fronte previdenziale, specialmente per quanto riguarda la flessibilità in uscita. Va ricordato infatti che si guarda con preoccupazione a cosa può succedere nel 2027 quando per effetto di quanto disposto dalla legge Fornero ci sarà l’adeguamento dei requisiti di pensionamento con le speranze di vita. Un meccanismo che potrebbe portare a un innalzamento dell’età pensionabile, tanto che ci vorranno tre mesi in più di contributi per smettere di lavorare indipendentemente da quale sarà l’opzione di pensionamento a cui si ricorre.
Lo stop all’adeguamento, però, continua a essere un obiettivo del governo, anzi lo potremmo definire quasi una priorità tanto che il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti avrebbe già dato il suo avvallo.
Ma non sarà l’unica misura: una novità importante rappresenta il futuro di Opzione Donna che fino a qualche settimana fa sembrava essere prossima all’addio. Durigon invece apre a un potenziamento della misura visto che in questi anni, complici alcune limitazioni imposte proprio dal governo Meloni, il numero di lavoratrici che ne ha fatto ricorso è stato sempre meno.
Confermato invece l’addio di Quota 103 mentre Durigon non ha parlato delle alternative (come ad esempio Quota 41 flessibile oppure l’estensione della pensione anticipata contributiva anche a chi rientra nel regime misto).
Il blocco dei requisiti di pensionamento
È il cuore della riforma previdenziale che il governo Meloni intende inserire nella prossima legge di Bilancio: sterilizzare l’aumento dei requisiti di pensionamento previsto dal 2027. Senza un intervento normativo, scatterebbe infatti l’adeguamento automatico alla speranza di vita introdotto con la legge Fornero, portando l’età per la pensione di vecchiaia a 67 anni e 3 mesi, mentre per l’anticipata sarebbero necessari 43 anni e 1 mese di contributi (uno in meno per le donne). Insomma, 3 mesi in più di lavoro per tutti, indipendentemente dal canale scelto per lasciare il mercato del lavoro.
“Ho già parlato con il ministro Giancarlo Giorgetti, incontrando la sua disponibilità a inserire il provvedimento all’interno della legge di Bilancio”, ha dichiarato il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon dal palco del Meeting di Rimini, confermando l’impegno politico a scongiurare un ulteriore irrigidimento del sistema.
Il nodo, come sempre, è quello delle risorse. Secondo le prime valutazioni rese note dal ministero del Lavoro, lo stop all’adeguamento avrebbe un costo limitato: circa 200 milioni di euro l’anno, una cifra ritenuta sostenibile per le casse dello Stato. Molto più alta invece la stima elaborata dall’Inps, che quantifica l’impatto in circa 3 miliardi di euro. Una differenza enorme che dovrà essere chiarita nei prossimi mesi, quando il Mef sarà chiamato a tradurre la misura in numeri concreti nella cornice della manovra.
Per il governo, tuttavia, si tratta di una vera e propria priorità politica: la prospettiva di dover restare al lavoro 3 mesi in più a partire dal 2027 rischia infatti di generare forte malcontento sociale. Non a caso la Lega ha fatto del congelamento dell’adeguamento uno dei suoi cavalli di battaglia.
Quali misure di flessibilità in legge di Bilancio?
Accanto al congelamento dell’adeguamento alla speranza di vita, il secondo pilastro della riforma riguarda la flessibilità nell’accesso alla pensione. Claudio Durigon lo ha ribadito con chiarezza: Quota 103, varata appena due anni fa, non ha funzionato come strumento di uscita anticipata. Troppo pochi i lavoratori che ne hanno fatto ricorso, frenati soprattutto dal ricalcolo interamente contributivo dell’assegno che in molti casi avrebbe prodotto penalizzazioni insostenibili.
Lo stesso discorso vale per Opzione Donna, ridotta nel tempo a un perimetro talmente ristretto da risultare residuale. Per il sottosegretario “andrebbe rafforzata”, restituendo alle lavoratrici uno strumento di flessibilità che oggi appare svuotato.
Per sostituire queste due vie poco attrattive, nelle discussioni sulla prossima legge di Bilancio prende corpo l’ipotesi della Quota 41 flessibile. Una formula che rappresenterebbe la naturale evoluzione di un cavallo di battaglia storico della Lega: permettere a tutti di andare in pensione con 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età anagrafica. Ma se estesa senza correttivi, la misura avrebbe un costo enorme,tra i 4 e i 5 miliardi di euro annui, difficilmente sostenibile dai conti pubblici.
Ecco perché la nuova versione immaginata dall’esecutivo è “flessibile”: non più un ricalcolo contributivo integrale, come per Quota 103, ma una penalizzazione più contenuta, fissata al 2% per ogni anno di anticipo. Un taglio che tuttavia non colpirebbe tutti in maniera uniforme: secondo le prime ipotesi, chi ha un Isee inferiore a 35.000 euro potrebbe esserne esentato, garantendo così una tutela ai redditi medio-bassi.
In parallelo si guarda alla pensione anticipata contributiva, oggi riservata ai cosiddetti “contributivi puri”. Dal 2025 consente l’uscita a 64 anni, con almeno 25 anni di contributi effettivi, a condizione che l’importo della pensione raggiunga almeno tre volte l’Assegno sociale. Nel 2026 questa opzione potrebbe essere estesa anche a chi ha iniziato a lavorare prima del 1996, cioè ai lavoratori del sistema misto, pur mantenendo il calcolo interamente contributivo dell’assegno per contenere i costi.
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