Pensioni, non ci sono i soldi per intervenire sul sistema di calcolo. Per questo sempre più pensionati saranno costretti a tornare al lavoro.
Il problema delle pensioni in Italia non riguarda tanto le regole del collocamento in quiescenza, come si è soliti pensare, quanto più gli importi degli assegni. Le regole di calcolo dell’assegno, cambiate tra il 1995 e il 1996 con la riforma Dini e poi applicate tout court dalla riforma Fornero, comportano infatti una riflessione su cosa potrà succedere specialmente nel lungo periodo.
Già oggi, infatti, l’importo medio mensile delle pensioni in Italia è molto basso e il rischio è che con l’avanzare degli anni, e il passaggio integrale al sistema di calcolo contributivo, possa andare sempre peggio.
Arrivare alla fine del mese con il solo importo della pensione rischierà di essere una sfida impossibile da superare, tanto che ci si potrebbe ritrovare di fronte al paradosso che tanti pensionati dovranno tornare al lavoro per avere un’entrata extra. Per buona pace di quel ricambio generazionale che dovrebbe essere alla base di ogni mercato del lavoro. D’altronde, se milioni di pensionati saranno costretti a riprendere a lavorare, il rischio è di comprimere ancora di più i salari e sottrarre spazio occupazionale ai giovani, alimentando un circolo vizioso.
Eppure tutte le riforme pensionistiche degli ultimi vent’anni si sono concentrate più sull’età di uscita che sull’adeguatezza economica dell’assegno, lasciando irrisolto il rischio di nuove povertà. E anche la Commissione Europea avverte: “Senza correttivi, il sistema contributivo rischia di produrre pensioni troppo basse per garantire una vecchiaia dignitosa”.
Il problema delle pensioni in Italia
Secondo l’ultimo Osservatorio statistico sulle pensioni erogate dall’Inps, oggi per i trattamenti di natura previdenziale l’importo complessivo annuo è di 253,90 miliardi di euro. Una cifra monstre che pesa molto sul bilancio dello Stato, per quanto nelle tasche dei pensionati non arrivino chissà che cifre.
Più precisamente, secondo i dati aggiornati al 2 aprile scorso l’importo medio - lordo - delle pensioni in Italia è pari a 1.229 euro. Va meglio agli uomini con un importo medio di 1.486 euro, mentre le donne arrivano per poco sopra i 1.000 euro (1.011 euro per la precisione).
È vero che su queste cifre può incidere il fatto che, come precisa l’Inps, il dato sia calcolato sui singoli assegni e non sull’intero reddito di pensione, non considerando quindi se una persona è titolare di due o più trattamenti, ma in linea generale possiamo dire che in Italia c’è un problema per gli importi delle pensioni.
Le tendenze di lungo periodo ci dicono che più andremo avanti con gli anni e più saranno i pensionati, mentre al tempo stesso, complice il calo della natalità, diminuiscono i lavoratori. In un sistema previdenziale la cui sostenibilità è garantita dai versamenti contributivi provenienti dal mercato del lavoro, quindi, questo è un problema non di poco conto. Specialmente se poi coloro che andranno in pensione lo faranno anche con un importo basso. Nel dettaglio, secondo le proiezioni Istat entro il 2050 ci saranno oltre 20 milioni di pensionati contro poco più di 26 milioni di occupati, un rapporto insostenibile per un sistema a ripartizione.
Ma in Italia ci sono sempre meno soldi per intervenire sulla riforma delle pensioni, ragion per cui non sembrano esserci margini, né adesso né in futuro, per rivedere il sistema di calcolo contributivo. Ma d’altronde lo stesso Mario Draghi durante la sua esperienza a capo di governo, aveva sottolineato che dal “contributivo non si torna indietro”.
Ma quali sono i rischi di un tale sistema di calcolo? Questo tiene conto esclusivamente dei contributi versati durante la carriera lavoratori, i quali al tempo stesso dipendono da quanto guadagnato. In un mercato del lavoro caratterizzato, specialmente in alcuni settori, di stipendi al ribasso, di precarietà e lavoro nero, il rischio di ritrovarsi all’età per la pensione con un assegno inferiore a 1.000 euro è concreto. E se a ciò si aggiunge che per coloro che rientrano interamente nel sistema contributivo, non avendo quindi versato contributi prima del 31 dicembre 1995, non si applica neppure l’integrazione al trattamento minimo, lo scenario si aggrava ulteriormente.
L’unica ancora di salvezza, la previdenza complementare, riguarda oggi appena un terzo dei lavoratori. Eppure chi avrebbe più bisogno di integrare la pensione non ha margine per farlo.
Ritorno al lavoro per milioni di pensionati?
Ed ecco che se la pensione non dovesse bastare il pensionato si ritroverebbe di fronte a un bivio: rivedere il proprio bilancio familiare o tornare al lavoro? La seconda opzione è possibile: ricordiamo infatti che - salvo alcune eccezioni come nel caso di Quota 103 - i redditi di pensione sono interamente cumulabili con quelli da lavoro.
Ciò significa che si può prendere la pensione e lavorare al tempo stesso: anzi, i contributi versati una volta ripresa l’attività lavorativa serviranno persino a richiedere un supplemento di pensione.
Ma il fatto che un pensionato sia costretto a tornare al lavoro perché non arriva alla fine del mese, al termine di una lunga carriera già caratterizzata dai sacrifici, rappresenta il fallimento del nostro sistema di welfare. Mentre l’Italia pensa a come innalzare le spese per la Difesa, c’è un esercito di pensionati che rischia di non lasciare mai definitivamente il mercato del lavoro.
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