Riparte il dibattito sulla riforma delle pensioni: ma davvero possiamo aspettarci un superamento della riforma del 2011? Ne abbiamo parlato con la sua ideatrice, la professoressa Elsa Fornero.
Dopo l’estate entrerà nel vivo il dibattito riguardante le misure pensionistiche che potrebbero essere finanziate dalla legge di Bilancio 2023.
L’obiettivo è rendere maggiormente flessibile l’attuale sistema pensionistico, frutto delle decisioni prese nel lontano dicembre del 2011 dall’allora Governo Monti, ma senza intaccare sui conti pubblici. Anche perché ci sono altre priorità, con la crisi energetica dovuta alla guerra in Ucraina che non fa dormire sonni tranquilli per l’inverno.
C’è chi, come Matteo Salvini, promette “barricate” qualora non dovessero esserci misure tali da consentire il superamento della riforma Fornero, e chi - come il presidente del Consiglio Mario Draghi - sottolinea l’importanza del sistema contributivo.
D’altronde, come spiegato da chi la riforma del 2011 l’ha pensata, la professoressa Elsa Fornero, è proprio questo metodo di calcolo a garantire sostenibilità all’intero sistema pensionistico, e solo una volta che il periodo di transizione sarà completato si potrà pensare a delle misure di flessibilità.
Lei che di quella riforma ne è la prima firmataria, può dirci cosa servirebbe davvero per cancellarla?
Francamente non vedo perché dovrebbe essere cancellata; è meglio parlare di superamento apportando dei correttivi qualora se ne rilevasse l’utilità.
Va detto però che l’Italia hai dei seri problemi da affrontare, uno su tutti il tasso di occupazione molto basso e il conseguente impoverimento della società. Con il rischio concreto di arrivare a una pensione povera smettendo di lavorare prima del previsto.
Ciò che supererebbe la riforma Fornero è la flessibilità, ma questa è già insita nella riforma stessa. Tuttavia, visto anche lo stato dei conti pubblici di allora, è stato scelto di demandarne l’introduzione al momento in cui tutte le pensioni verranno liquidate interamente con il sistema contributivo.
La transizione, che dovrebbe essere completata nei primi anni del 2030, è necessaria: solo allora avrà senso parlare di flessibilità, con la possibilità già prevista dalla riforma di consentire il pensionamento tra i 63 e i 70 anni, ma solo per chi raggiunge una pensione di un certo importo. Perché altrimenti si rischia di avere pensionati poveri con lo Stato che dovrebbe intervenire riconoscendo loro appositi sussidi, con un conseguente aggravio della spesa pubblica.
Ciò che si può fare oggi è tutelare le categorie più fragili: disoccupati, persone che assistono i familiari disabili, chi per anni è stato occupato in mansioni gravose e usuranti. Per questi sì che lo Stato può e deve fare qualcosa affinché possano andare in pensione con qualche anno di anticipo.
Secondo lei ci sono le condizioni, sia economiche che politiche, per approvare una riforma che riveda completamente le regole per l’accesso alla pensione?
Come detto in precedenza, non serve una controriforma. Si possono fare degli aggiustamenti, ma d’altronde dovrebbe essere così per ogni riforma.
Quando si prendono delle decisioni importanti come fatto nel 2011, infatti, bisogna monitorare costantemente il processo di attuazione della riforma, così da intervenire tempestivamente con dei correttivi e aggiustarne il tiro.
Provvedimenti come Quota 100, per la quale non ci si è preoccupati dell’impatto che avrà sulle generazioni future, rappresentano invece un modo poco saggio di spendere le risorse pubbliche.
È possibile pensare a misure di flessibilità che non vadano a impattare i conti pubblici?
Le uniche misure di flessibilità sostenibili sono quelle che prevedono un ricalcolo interamente contributivo dell’assegno. Ma attenzione agli importi degli assegni, perché con il sistema contributivo si prende quanto effettivamente è stato versato. Senza sufficienti contributi, dunque, il rischio è di ritrovarsi con una pensione inadeguata.
Va bene tutelare, anche con interventi pubblici, chi ha avuto una vita sfortunata, quali appunto coloro che rientrano nella categoria dei fragili; quel che non va fatto è pensare a misure rivolte a tutti, compresi coloro che non ne hanno bisogno, in quanto si tratterebbe di uno spreco di denaro.
Ad esempio: perché parlare di riscatto della laurea gratuito per tutti? Se c’è chi ha le disponibilità economiche per farsi carico del costo previsto è giusto che paghi.
Come ha recentemente spiegato la Ragioneria di Stato, la sua riforma ha permesso di risparmiare 80 miliardi di euro. Dopo più di 10 anni la riapproverebbe così com’è o si è pentita di qualcosa?
In quelle condizioni e in quel poco tempo a disposizione (20 giorni) ho fatto il meglio che potevo. Ho imparato però a non fidarmi di tutti, a distinguere chi vuole aiutarmi da chi invece è pronto a ingannare.
Tornassi indietro guarderei i numeri con maggiore attenzione, ma va detto che i dati non c’erano visto che lo stesso ministero del Lavoro non aveva un registro di tutti gli accordi di prepensionamenti.
Si è trattato però di una riforma necessaria. C’è una parte della politica che fa passare il messaggio per cui “tutto è possibile”, ma non è così: è difficile andare controcorrente ma i momenti di verità giungono ed è bene essere sinceri nei confronti dei cittadini.
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