La Naspi è una politica attiva? Sì, ma spesso lo si dimentica

Simone Micocci

3 Novembre 2025 - 12:49

In Italia c’è un vero e proprio «esercito» di disoccupati. Ma i servizi di orientamento non riescono ad assolvere alla funzione per cui sono chiamati, facendo sì che la Naspi risulti solo un sussidio.

La Naspi è una politica attiva? Sì, ma spesso lo si dimentica

Storicamente l’Italia ha un problema con le politiche attive, sulle quali i governi hanno sempre mostrato scarsa fiducia. La Naspi non fa eccezione: spesso ci si dimentica che non dovrebbe essere soltanto un sussidio di disoccupazione, bensì uno strumento di accompagnamento per favorire il ritorno al lavoro nel più breve tempo possibile.

Fino a pochi anni fa, nonostante il rilascio della Dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro, chi percepiva la Naspi veniva di fatto dimenticato dai servizi pubblici per l’impiego. Dopo la presa in carico iniziale nessuno si preoccupava davvero di assistere il disoccupato, complice la mancanza di progettualità e di personale nei centri per l’impiego. A questo si aggiungeva l’incapacità di incrociare in modo efficace domanda e offerta, in un mercato in cui le assunzioni avvengono ancora in larga parte tramite passaparola o avvalendosi dell’ufficio risorse umane interno all’azienda. Non a caso, il ricorso ai centri per l’impiego, ma anche ai servizi privati, resta tuttora marginale.

Con l’avvio del programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori) la situazione è migliorata: i disoccupati, al pari di chi percepisce altri strumenti come l’Assegno di inclusione o il Supporto per la formazione e il lavoro, sono stati inseriti in percorsi di orientamento e formazione. Ma i risultati restano ancora insoddisfacenti. Secondo i dati del ministero del Lavoro, al 31 gennaio 2025 il programma Gol aveva preso in carico oltre 3,2 milioni di persone, in maggioranza donne (55,5%), giovani under 30 (29,2%) e cittadini stranieri (15,3%). La metà di loro è stata indirizzata al cosiddetto “percorso 1”, che riguarda chi è più vicino al mercato del lavoro, mentre solo un quarto ha avuto accesso a programmi di aggiornamento (24,8%) o di riqualificazione (20,7%). Ancora più marginali i percorsi complessi di lavoro e inclusione (3,8%) e le ricollocazioni collettive (0,1%).

Un dato che fa riflettere è la durata della disoccupazione: oltre un terzo dei beneficiari era senza lavoro da almeno 6 mesi al momento della presa in carico, e quasi uno su tre da più di un anno. Questo conferma la difficoltà a trasformare i percorsi di orientamento in reali opportunità di impiego. Certo, i servizi per l’impiego hanno aumentato la loro capacità di coinvolgere gli utenti, la percentuale di chi ha avviato una politica attiva è salita dal 48,2% del terzo trimestre 2022 al 71,8% del quarto trimestre 2024, ma resta il nodo cruciale: la qualità dei percorsi e la loro effettiva efficacia nel riportare le persone al lavoro.

Il governo Conte aveva provato a invertire la rotta, puntando a rafforzare la qualità dei servizi per l’impiego con un investimento da un miliardo di euro destinato al potenziamento dei centri per l’impiego. Si trattava di un progetto ambizioso, che nelle intenzioni avrebbe dovuto restituire centralità al pubblico nella gestione delle politiche attive. Tuttavia, quell’intervento non ha mai dispiegato i suoi effetti: la pandemia ha congelato sul nascere ogni tentativo di riforma, privando i centri di quel salto organizzativo e tecnologico di cui avrebbero avuto estremo bisogno.

Con il cambio di legislatura e l’arrivo del governo Meloni, il piano si è progressivamente arenato. Anzi, si è scelta una direzione diversa: la nomina di Marina Elvira Calderone al ministero del Lavoro ha coinciso con un crescente affidamento di spazi di intervento alle agenzie private per il lavoro. Una scelta che, se da un lato mira a compensare l’inefficienza del pubblico, dall’altro solleva non poche perplessità. Calderone ha infatti un passato da presidente dell’Ordine dei Consulenti del lavoro, e il legame con quell’ambiente resta stretto anche nel presente: suo marito, Rosario De Luca, ne è l’attuale presidente.

Tra l’altro, oggi ci troviamo di fronte a una realtà in cui la priorità sembra essere più quella di fermare i “furbetti” delle misure di sostegno piuttosto che valorizzare questi strumenti come leve per reintegrare i disoccupati nel mercato del lavoro. Un esempio emblematico è la norma introdotta dalla legge di Bilancio 2025, che ha inasprito i requisiti per accedere alla Naspi: chi si dimette volontariamente o attraverso risoluzione consensuale da un lavoro a tempo indeterminato e nei 12 mesi successivi viene assunto di nuovo, non ha più diritto alla Naspi in caso di nuova disoccupazione, a meno di aver maturato almeno 13 settimane di contribuzione nel nuovo impiego.

Si tratta di interventi chiaramente dal taglio repressivo: non affrontano i limiti strutturali delle politiche attive, ma piuttosto impedisce quei meccanismi elusivi, come dimissioni seguite da rientri brevi (e spesso fittizi) in azienda, per i quali si accedeva alla Naspi praticamente senza soddisfare condizioni di reale bisogno. In altri casi, ad esempio, chi accumula assenze ingiustificate protratte fino a far scattare un licenziamento “forzato dal datore, rischia di vedersi interpretare l’azione come volontaria, e quindi perdere il diritto alla Naspi.

Non sorprende tuttavia che, nella percezione dei cittadini, la Naspi sia sempre più vista come un sostegno economico di ripiego nei momenti di disoccupazione, non come un’opportunità di rilancio professionale. E chi si trova nel mezzo di queste misure, spesso si sente vittima di un peso burocratico anziché accompagnato verso una reale possibilità di inserimento lavorativo.

Lo dico per esperienza diretta: durante la mia precedente collaborazione in un centro per l’impiego, mi sono imbattuto in numerosi percettori del Reddito di Cittadinanza che avrebbero volentieri rinunciato al sussidio in cambio di un lavoro stabile e dignitoso. Ma la carenza di titoli scolastici, di esperienze pregresse e, soprattutto, la scarsità di opportunità sul territorio hanno reso quel passaggio pressoché irrealizzabile per la maggior parte di loro.

Le stesse agenzie private, d’altronde, si dimostrano tradizionalmente più efficaci nell’accompagnare figure “rifinite” come i laureati, ma restano in difficoltà quando si tratta di diplomati o di chi ha, persino, solo la licenza media, che, tra l’altro, rappresenta il profilo più diffuso tra i beneficiari delle misure di sostegno. Questo mismatch, tra domanda e offerta reale, si traduce troppo spesso in una promessa mai mantenuta per chi cerca una via d’uscita dalla disoccupazione.

La differenza con altri Paesi europei, basti pensare alla Germania, è lampante. Berlino ha costruito negli anni una rete di servizi pubblici per l’impiego solida ed efficiente, centrata sulle Jobcenter e sulle agenzie federali per il lavoro, che operano in stretta connessione con imprese, sindacati e istituti di formazione. Queste non si limitano a registrare i disoccupati, ma offrono percorsi personalizzati di riqualificazione, incentivi alle aziende che assumono e un monitoraggio costante dei risultati. In Germania la politica attiva è considerata un investimento per il sistema economico: ogni euro speso in formazione e reinserimento riduce i costi futuri di assistenza e aumenta la produttività complessiva.

In Italia, invece, l’approccio resta debole e frammentato. Non aiuta la riforma del 2001 dell’articolo 117 del Titolo V della Costituzione, che ha demandato alle Regioni il compito di incrociare domanda e offerta di lavoro. Il risultato è un mosaico disomogeneo: in alcune realtà amministrative si registra una certa attenzione e una capacità di attivare strumenti innovativi, in altre i centri per l’impiego restano privi di risorse e di progettualità, riducendo l’azione pubblica a un ruolo meramente burocratico.

Non sorprende allora che il nostro tasso di disoccupazione resti alto e che i percettori di sussidi fatichino a trasformarsi in lavoratori attivi. Se è vero che nessuna politica può creare lavoro dal nulla, perché senza nuove opportunità occupazionali il problema resta irrisolto, è altrettanto vero che non possiamo trascurare la necessità di accompagnare chi, da solo, non riesce a ricollocarsi.

Nel frattempo i centri per l’impiego restano aperti, ma spesso relegati a funzioni meramente amministrative. Manca quel cuore pulsante che dovrebbe accompagnare chi vive una condizione lavorativa fragile verso una reale opportunità di reinserimento. In questo modo stiamo spendendo male i nostri soldi: la Naspi, nella maggior parte dei casi, viene percepita fino alla sua scadenza naturale, trasformandosi da misura transitoria a sussidio a tempo pieno. Il peso sulle casse pubbliche è enorme, considerando che la spesa per le misure assistenziali in Italia è tra le più alte d’Europa.

A essere bassa, invece, è la spesa per le politiche attive e per i servizi per il lavoro. I dati Inapp, elaborati su base Eurostat, parlano chiaro: l’Italia destina appena lo 0,22% del Pil alle politiche attive, contro una media europea dello 0,61%. Paesi come la Spagna arrivano addirittura all’1,03%, quasi cinque volte il nostro livello. Non solo: tra il 2008 e il 2020 l’Italia ha ridotto del 39% gli investimenti in questo campo, invertendo il trend solo con un timido +8% all’inizio della pandemia, quando quasi tutti i Paesi Ue hanno aumentato la spesa per far fronte all’emergenza.

Il quadro è ancora più desolante se si guarda alla voce “servizi per il lavoro”, cioè proprio quella che dovrebbe garantire l’incontro tra domanda e offerta: in Italia la spesa è appena dello 0,26 per mille del Pil, contro una media europea del 2 per mille. Siamo, insomma, tra gli ultimi in Europa. Una situazione che, come sottolinea il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda, non dipende solo dall’esiguità delle risorse, ma anche dai limiti di efficienza ed efficacia dei centri per l’impiego: strutture poco tecnologiche, scarsamente coordinate e con operatori non sempre adeguatamente formati.

Il risultato è un paradosso: spendiamo molto in sussidi e poco in politiche attive, pagando un servizio che non funziona ma che, con una riforma di lungo periodo, avrebbe tutte le carte in regola per diventare finalmente efficace. Serve un cambio di rotta deciso perché i servizi privati, da soli, non bastano. Senza un’infrastruttura pubblica forte e capace di agire in maniera omogenea, continueremo ad avere un sistema che assiste i disoccupati ma non li accompagna davvero verso il lavoro.

Il vero salto di qualità non sta nel moltiplicare i controlli sui “furbetti”, ma nel trasformare il sussidio in una reale opportunità di reinserimento. Perché un Paese che spende miliardi per sostenere chi perde il lavoro ma non investe per rimetterlo in piedi non solo tradisce la propria forza produttiva: rinuncia a costruire futuro.

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