Nonostante la crescente tensione in Medio Oriente, i mercati globali restano sorprendentemente stabili: un secolo di storia dimostra che guerre e borse raramente vanno in crisi insieme.
Nel febbraio 2022, quando la Russia invase l’Ucraina, sembrava l’alba della terza guerra mondiale. I media si riempirono di scenari apocalittici, gli analisti si rincorsero nel prevedere crolli finanziari e gli investitori iniziarono a tremare. Ottobre 2023, Hamas attacca Israele e Tel Aviv risponde con una feroce offensiva su Gaza. Ancora una volta, i titoli dei telegiornali parlarono di tempeste perfette per l’economia globale. Ora, nel 2025, Israele ha colpito direttamente l’Iran, e i riflettori sono di nuovo accesi su una possibile escalation mediorientale.
Eppure, a osservare i dati di borsa, il quadro appare sorprendente. I mercati globali hanno reagito, sì, ma senza panico. L’oro ha consolidato i suoi massimi, il petrolio è risalito da livelli insolitamente bassi e il dollaro, al contrario, ha subito qualche pressione, ma per motivi più interni alla politica monetaria americana che al rischio bellico. Il famigerato Liberation Day evocato da Trump ha generato più sconcerto nei talk show che sulle piazze finanziarie.
Questa reazione tiepida dei mercati di fronte a crisi geopolitiche anche gravi non è un’eccezione. È la regola. La storia dei mercati finanziari racconta che gli eventi bellici, a meno che non colpiscano direttamente la capacità delle aziende quotate di generare utili, vengono digeriti rapidamente. Dal 1978 ad oggi, sono stati undici i conflitti riconosciuti come guerre dalle fonti internazionali, e in soli due casi – Prima Guerra del Golfo e crisi siriano-libica del 2011 – i mercati hanno chiuso in rosso. [...]
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