Coronavirus mutato in almeno 30 ceppi diversi. Dove si è diffuso il più letale?

Anna Maria Ciardullo

22/04/2020

04/06/2020 - 15:23

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Secondo uno studio il coronavirus è mutato in almeno 30 ceppi differenti. Ecco dove si è diffuso il più letale

Coronavirus mutato in almeno 30 ceppi diversi. Dove si è diffuso il più letale?

Secondo un nuovo studio, il coronavirus è mutato in almeno 30 diversi ceppi e in Europa si sarebbe diffuso quello più letale.

Sono i dati emersi da una ricerca condotta dall’Università di Zhejiang e pubblicata dal sito medRxiv, secondo la quale i ceppi sarebbero molto più numerosi rispetto a quelli noti. I ricercatori ne hanno isolati ben 19 che non erano mai stati scoperti prima.

Lo studio, che deve essere ancora sottoposto alla revisione degli altri scienziati, ha evidenziato anche un’altra caratteristica dei suddetti ceppi: alcuni risultano più potenti e resistenti di altri e sembrerebbe proprio che in Europa se ne sia diffuso uno dotato di una carica virale maggiore rispetto a quello riscontrato, ad esempio, negli Stati Uniti, considerato più debole.

Coronavirus mutato in almeno 30 ceppi: il più letale in Europa

La ricerca che ha scoperto i nuovi ceppi di coronavirus è stata anche la prima a indicare che la mutazione potrebbe influenzare l’aggressività della malattia.

Il gruppo di studiosi cinesi coordinato da Li Lanjuan ha sottolineato anche i rischi legati a questi processi di mutazione: il virus si sarebbe evoluto più volte superando la resistenza del sistema immunitario in diverse popolazioni.

Le mutazioni più letali sono state osservate nei ceppi che hanno colpito l’Europa, soprattutto i Paesi che dove gli effetti sono stati più gravi, come Italia e Spagna, e anche nello Stato di New York così come nello Zhejiang, dove si trova l’università. Quelli osservati sulla costa occidentale statunitense e a Wuhan invece sono risultati più deboli.

La metodologia di ricerca

Il dato emerge dall’analisi dei ceppi virali isolati in 11 pazienti cinesi affetti da coronavirus.

I test sulle cellule umane sono stati effettuati in vitro e verificati più volte a distanza di una, due, quattro e otto ore e poi ancora 48 ore dopo, per determinare la carica virale e l’insieme di cambiamenti morfologici che una cellula infetta da virus può assumere, detti anche effetti citopatici (CPE). Questi ultimi sono stati analizzati anche fino a tre giorni dopo.

Alcuni ceppi hanno prodotto una carica virale fino a 270 volte più alta di altri, risultando dunque più aggressivi e letali per le cellule. Evidenze che secondo lo studio dimostrerebbero l’impatto diretto delle mutazioni della COVID-19 sulla carica virale, sui CPE e sulla “patogenicità” ossia la capacità di causare malattie. Si stima che potrebbe verificarsi circa una mutazione al mese.

Purtroppo, mutazioni più lievi, fanno notare i ricercatori, non implicano necessariamente più bassi livelli di rischio per la popolazione: molti pazienti affetti da ceppi più deboli si sono comunque ammalati gravemente o sono deceduti. Non è il caso dei pazienti esaminati nell’ambito della ricerca, fortunatamente, otto uomini tre donne, tutti guariti dalla malattia.

Le conclusioni dello studio

Lo studio, va precisato, non è stato ancora sottoposto a peer-review e dovrà quindi incontrare il favore degli altri scienziati prima di essere preso alla lettera.

L’eventualità che il coronavirus subisca delle mutazioni è stata già accertata, essendo un virus RNA, ma sulle implicazioni di tali cambiamenti le ipotesi restano aperte.

Se la ricerca fosse avvalorata in tutte le sue parti, i diversi ceppi potrebbero richiedere anche sforzi diversi nell’individuazione di cure e vaccini, al plurale, capaci, ad esempio, di colpire le parti del virus meno soggette a cambiamenti.

Giuseppe Novelli, genetista dell’Università Tor Vergata di Roma, interpellato da AGI ha definito la ricerca cinese completa e accurata, seppur ancora da prendere con cautela in attesa di una revisione ufficiale, confermando però che:

“studiare queste mutazioni ci dovrebbe aiutare a capire se avremo bisogno di più di un vaccino e di più di un anticorpo monoclonale per combatterle, ma bisogna sempre essere cauti perché nell’evoluzione di un virus anche il genoma dell’ospite ha un ruolo chiave. Sarà, dunque, necessario anche capire che relazione c’è tra patogeno e ospite prima di dare risposte certe”.

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