Dal 1929 all’era dell’intelligenza artificiale, le crisi finanziarie mostrano un meccanismo ricorrente: quando le fondamenta del sistema vacillano, anche un calo dei mercati può diventare catastrofico
Il mito vuole che il crollo di Wall Street del 1929 sia stato la causa diretta della Grande Depressione. In parte è vero. Ma, come spesso accade nella storia economica, le radici del disastro affondano molto più in profondità. Il tonfo della Borsa non fu che la scintilla che accese una polveriera già colma di debiti, speculazioni e illusioni.
Negli anni Venti, l’America viveva un periodo di apparente prosperità. La produzione industriale cresceva, la tecnologia (l’automobile, la radio, l’elettricità) sembrava promettere un futuro di ricchezza senza limiti. La fiducia cieca nel progresso si tradusse in una corsa sfrenata all’acquisto di titoli. Milioni di piccoli risparmiatori investivano in azioni a credito, convinti che i prezzi sarebbero saliti per sempre.
Le grandi banche, come la National City Bank di Charles E. Mitchell o la JPMorgan di Thomas Lamont, alimentarono il clima di euforia. Si vendevano titoli tossici a investitori ignari, si manipolavano i corsi attraverso i cosiddetti “pool” di mercato, e si concedevano prestiti sempre più rischiosi. Il credito facile gonfiò una bolla che, inevitabilmente, doveva esplodere. [...]
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