Busta paga, ecco quando il datore di lavoro può ridurre lo stipendio

Claudio Garau

16 Giugno 2025 - 21:48

Ecco in quali casi il datore di lavoro può ridurre lo stipendio in busta paga e quando la diminuzione è illegittima.

Busta paga, ecco quando il datore di lavoro può ridurre lo stipendio

Qualsiasi lavoratore spera in un aumento dello stipendio per far fronte alle spese quotidiane, sempre più costose, con maggiore serenità.

Tuttavia, i costi aumentano anche per le aziende, che a causa delle difficoltà economiche possono viceversa ridurre lo stipendio dei dipendenti. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, non esiste un divieto che impedisce ai datori di lavoro di tagliare la busta paga del personale.

Ciò è però possibile soltanto a determinate condizioni e soprattutto rispettando i diritti dei lavoratori. Nonostante l’assenza di un salario minimo, infatti, c’è una soglia sotto cui non è possibile scendere: in caso contrario, i dipendenti possono agire in giudizio per ottenere la tutela garantita dalla legge.

A tal proposito, è fondamentale sapere quando il datore di lavoro può ridurre lo stipendio e quando, invece, la diminuzione è illegittima.

Il datore di lavoro può ridurre lo stipendio?

L’articolo 2103 del Codice civile vincola il datore di lavoro al rispetto del contratto individuale tanto per lo stipendio previsto quanto per le mansioni concordate. In altre parole, vieta la riduzione unilaterale dello stipendio, come pure il demansionamento dei dipendenti. L’azienda non può deliberatamente diminuire la retribuzione del personale, nemmeno in un periodo di crisi economica.

Lo stesso articolo impedisce di pattuire la riduzione dello stipendio tra le parti, per tutelare il lavoratore da eventuali abusi, a meno che ricorrano particolari circostanze. In particolare, il dipendente può accettare uno stipendio inferiore, ma sempre commisurato alla prestazione lavorativa, quando ciò è indispensabile alla conservazione del posto di lavoro o comunque a condizioni più favorevoli per il lavoratore stesso.

Quando (e quanto) può essere ridotto lo stipendio

Secondo il già citato articolo 2103 del Codice civile possono essere stipulati accordi tra il datore di lavoro e i dipendenti per modificare le mansioni, la categoria legale, il livello di inquadramento e la retribuzione soltanto nell’interesse del lavoratore.

Quest’ultimo viene individuato nelle seguenti circostanze:

  • conservazione dell’occupazione;
  • miglioramento delle condizioni di vita;
  • acquisizione di nuove professionalità.

Per assicurare che questi paletti vengano rispettati e cioè che il datore di lavoro non abusi della propria posizione dominante per obbligare i dipendenti ad accettare un accordo sfavorevole, l’accordo deve avvenire in sede protetta. Nel dettaglio, è richiesto che le parti si accordino con l’assistenza dei sindacati, presso gli uffici del giudice del lavoro, dell’Ispettorato nazionale del Lavoro o della Commissione di certificazione dei contratti di lavoro.

Questa possibilità di accordo è fondamentale per tutelare il personale, considerando che il datore di lavoro può procedere con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo in caso di crisi aziendale. In questo modo il lavoratore ha invece la possibilità di conservare l’occupazione, senza dovere tuttavia sottostare a ingiuste pretese.

Bisogna comunque rilevare che anche in caso di accordo la riduzione dello stipendio in busta paga avviene indirettamente, come conseguenza delle differenze di mansioni e inquadramento. A parità di lavoro, infatti, il personale non può essere costretto a ricevere una retribuzione inferiore rispetto a quella pattuita. Sul punto, bisogna far riferimento al Ccnl di riferimento, ma anche al contratto individuale, che ben potrebbe prevedere uno stipendio migliore di quello “minimo”.

Quando il datore di lavoro non può ridurre lo stipendio

Come già sottolineato, il datore di lavoro non può ridurre lo stipendio dei dipendenti unilateralmente, cioè imponendo la diminuzione ai dipendenti. Non solo, non è neanche possibile concordare la diminuzione se ha un effetto peggiorativo per il lavoratore. Per esempio, non è possibile ridurre la retribuzione oraria, ma neanche costringere il lavoratore a mansioni di livello inferiore.

Ciò significa che il datore di lavoro non può intervenire sulla paga base; quel che può fare, qualora abbia necessità di ridurre i costi, è revocare tutte quelle attribuzioni patrimoniali che non hanno carattere contributivo, come possono essere i buoni pasto, ma senza toccare stipendio e compensi accessori.

Inoltre, qualora dovesse decidere di cambiare mansioni al dipendente, purché d’inquadramento superiore o comunque riconducibili allo stesso livello, potrebbe revocare l’attribuzione delle indennità per mansione specifica, se riconosciute, ma nient’altro.

In caso contrario, il lavoratore può agire in giudizio proprio come se lo stipendio non fosse stato pagato. A ribadirlo è anche l’ordinanza n. 26320/2024 della Cassazione, che conferma l’irriducibilità dello stipendio al di fuori dell’accordo migliorativo in sede protetta.

Altrimenti, il lavoratore ha diritto al pagamento degli arretrati, comprensivo di differenze salariali, contributive e Tfr, oltre all’eventuale risarcimento del danno aggiuntivo. Nel caso in cui il dipendente lasci l’occupazione, inoltre, viene riconosciuta la giusta causa di dimissioni. Nel caso opposto, in cui il datore licenzia il dipendente che non accetta l’accordo peggiorativo, si è invece di fronte a un licenziamento illegittimo.

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