Riportiamo qui un interessante contributo di Sergio Levrero, professore associato presso il Dipartimento di Economia dell’Università Roma Tre, pubblicato nell’ebook uscito con la rivista Micromega online dal titolo Oltre l’austerità.
Un passo indietro? L’euro e la crisi del debito
Anche solo analizzando l’ultima Relazione Annuale della Banca d’Italia si può capire quanto grave sia la situazione economica della maggior parte dei paesi dell’area dell’euro, e perché fosse vitale un qualche esito positivo dell’ultimo vertice europeo di Bruxelles del 28-29 Giugno.
- Anzitutto, ad eccezione di pochi paesi tra cui la Germania, si hanno in Europa tassi di crescita della produzione inferiori a quelli di altri paesi industrializzati, ampi margini di capacità produttiva inutilizzata, livelli crescenti di disoccupazione, ed un progressivo impoverimento di larghi strati della popolazione.
- In secondo luogo, nella Relazione della Banca d’Italia si ammetteva che, senza sostanziali cambiamenti nella struttura istituzionale dell’Unione monetaria europea, questa situazione non potrà che peggiorare, e che la stessa esistenza e ragione di una politica monetaria comune è già di fatto oggi messa in discussione. Vi si riconosceva infatti che – pur con i massicci interventi della Banca Centrale Europea tesi ad evitare il collasso finanziario dell’area dell’euro grazie ad una immissione netta di liquidità nel sistema economico di circa 500 miliardi di euro – si sta verificando in quest’area un processo di segmentazione del mercato interbancario, e vi si stanno registrando dal 2009 persistenti (ed ancora a lungo non sostenibili) divergenze nei tassi di interesse tra i diversi paesi – divergenze che, nelle parole di Visco, “impediscono il corretto operare della politica monetaria”.
Se questa è la situazione – tale da far nascere persino il dubbio circa la validità, almeno per paesi come l’Italia, della scelta fatta da più di un decennio di rinunciare alla propria sovranità monetaria, e dunque tra l’altro anche allo strumento del tasso di cambio per riequilibrare i propri disavanzi commerciali con l’estero – si comprende perché nell’ultimo vertice del Consiglio europeo fossero mature le condizioni per introdurre un qualche meccanismo di stabilizzazione dei tassi di interesse rispetto a quelli tedeschi e forme di salvataggio degli istituti di credito in difficoltà direttamente da parte della Banca Centrale Europea o di suoi “veicoli” esterni. Si comprende meno però perché le misure per superare la situazione di crisi che colpisce i paesi europei siano risultate così poco rilevanti, e dunque con così poche probabilità di successo, almeno con riferimento a quei paesi (tra cui il nostro) definiti “non virtuosi” nella Relazione della Banca d’Italia, ed a cui quindi sono richiesti dalla Commissione Europea “sacrifici” che senza quella crescita risulteranno difficilmente sostenibili, o comunque estremamente pesanti.
Lo scopo di questo intervento sarà proprio quello di discutere le prospettive future dell’Unione monetaria europea che questa situazione determina, e le misure che, se necessario, dovrebbero adottarsi per minimizzare i costi di un evento che allo stato attuale, anche dopo il vertice europeo di Bruxelles, continua ad avere una qualche probabilità (e non bassa) di verificarsi – ovvero, l’uscita dall’euro di paesi “periferici” come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, o anche la rottura della stessa area dell’euro, con il ritorno a proprie valute nazionali. In particolare, verranno qui analizzati gli ostacoli economici, politici e legali che si dovrebbero affrontare in questa circostanza, ed i provvedimenti che si dovrebbero adottare per minimizzare i costi che quella uscita sicuramente determinerebbe.
E’ bene precisare che la discussione circa i possibili scenari futuri verrà fatta sulla base di considerazioni strettamente economiche, prescindendo cioè da argomentazioni di natura politica o geo-politica circa la necessità di mantenere in vita l’area dell’euro, ad esempio per non precludere un processo di unificazione politica dell’Europa. Se tali argomentazioni infatti hanno avuto, ed hanno ancora, un peso importante, da sole non potrebbero reggere la prova se la conseguente scelta a favore dell’euro si accompagnasse con un forte impoverimento, e per un arco non breve di tempo, di larghi strati della popolazione europea, in particolare dei paesi “periferici” dell’Unione europea.
Paradossalmente, poi, quelle argomentazioni sembrano da un lato il riflesso di un determinismo economico che inverte quanto storicamente si è sempre verificato – ovvero, che la moneta segue la creazione di un ‘sovrano’ che le dà legittimità, piuttosto che essere lo strumento per creare quella sovranità politica. Dall’altro, esse sembrano riflettere convinzioni errate circa la neutralità della moneta, e non tener conto che determinati gruppi sociali e aree geografiche possono aver tratto, e potrebbero continuare a trarre, vantaggi a scapito di altri gruppi e aree geografiche dall’esistenza di una moneta unica, soprattutto in assenza di un corrispondente legittimo potere politico a livello europeo.
Come espressamente dichiarato nella Relazione della Banca d’Italia la sopravvivenza dell’Unione monetaria europea appare legata a riforme istituzionali che superino il carattere in gran parte improvvisato ed emergenziale che finora ha caratterizzato la costituzione prima dell’EFSM (lo European Financial Stabilisation Mechanism), poi dell’EFSF (lo European Financial Stability Fund), ed infine dell’ESM (lo European Stability Mechanism).
Sia le misure adottate che le soluzioni prospettate per il futuro nei recenti vertici europei non sembrano però all’altezza della situazione, ed anzi, come si dirà, potranno determinare un peggioramento delle condizioni macroeconomiche a livello europeo. Su molte di esse poi continua a non esservi accordo tra i principali paesi europei. Questo è il caso, ad esempio, della proposta di istituire un fondo in cui trasferire i debiti sovrani dei singoli Stati che eccedano una soglia uniforme, da redimere gradualmente in tempi e modi da definire.
Ma questo è il caso anche della proposta meno ambiziosa di scorporare le spese dello Stato in conto capitale dal calcolo del deficit massimo di bilancio consentito agli Stati membri dell’area dell’euro (la cosiddetta “golden rule”), dando così loro un qualche margine per politiche di sostegno alla domanda aggregata. In tutti questi casi, ci si trova di fronte all’opposizione della Germania e di altri paesi dell’Europa centrale verso qualsiasi provvedimento che possa determinare o favorire una qualche forma di monetizzazione e condivisione del debito pubblico, così come verso la costituzione di una Unione europea in grado di emettere propri titoli di debito ed operare attraverso propri strumenti fiscali trasferimenti di reddito tra le varie regioni dell’Unione parallelamente, e non solo in caso successivamente, ad una progressiva perdita di sovranità fiscale dei singoli Stati membri.
La posizione della Germania
La posizione della Germania – comprensibile nell’ottica nazionale di un paese che ritiene che per questa strada finirebbe per assumersi l’onere di debiti accumulati da altri, ma meno comprensibile alla luce dei guadagni che quel paese ha conseguito proprio grazie alla moneta unica, ed anche del contributo in percentuale al PIL non maggiore di altri paesi che finora ha dato alle risorse comunitarie ed ai fondi di stabilizzazione - sembra in effetti precludere la via all’unico scenario che potrebbe risolvere la crisi attuale con costi minimi per la popolazione europea, superando tra l’altro la contraddizione tutta europea di paesi sovrani a sovranità monetaria limitata, privi cioè di una propria Banca Centrale.
Per quanto infatti poco probabile per ragioni storiche, politiche ed economiche, si tratterebbe di giungere ad una revisione dei Trattati dell’Unione monetaria europea centrata da un lato su una modifica dello Statuto della Banca Centrale Europea che le permetta di agire come prestatore di ultima istanza anche (a lungo termine) per il debito sovrano dei paesi europei, così garantendone la solvibilità e minimizzando il costo del servizio del debito pubblico; e dall’altro, su una più sostanziale unificazione politica ed economica dell’Europa, con un vero Stato e governo federali, una vera politica fiscale europea dotata di un consistente bilancio proprio, e l’emissione di titoli pubblici europei.
Ciò permetterebbe tra l’altro di affrontare quella che in realtà è tra le cause delle attuali difficoltà dell’area dell’euro, l’assenza cioè di meccanismi di aggiustamento degli squilibri commerciali intra-europei non semplicemente in termini di cadute del reddito interno e/o dei salari e dei prezzi nei paesi in deficit – ma anche con trasferimenti di risorse a livello europeo verso quei paesi in deficit, o più in generale verso i paesi che risultassero colpiti in modo asimmetrico dalle politiche monetarie seguite a livello centrale e/o dall’andamento economico interno ed internazionale.
In questo contesto, vincoli ai bilanci statali dei singoli Stati non precluderebbero le possibilità di crescita complessiva dell’area dell’euro, garantite da appropriate e coordinate politiche monetarie e fiscali a livello centrale. Inoltre, opportune politiche industriali dei singoli Stati (favorite anche da trasferimenti centrali) potrebbero evitare gradi di specializzazione troppo elevati delle singole regioni europee, favorendo il mantenimento e sviluppo del tessuto industriale anche nelle aree più deboli (ed anche in campi tecnologicamente avanzati), un processo di omogeneizzazione della legislazione sul lavoro e fiscale, la riduzione della dipendenza dall’estero dei paesi “periferici” - che permetta anche per questa via tassi di crescita più elevati per il complesso dell’area dell’euro.
Se ciò si realizzasse, e solo in questo caso, l’appello a “stringersi intorno alla manifattura tedesca” per poter “reggere” in futuro la concorrenza internazionale delle grandi imprese multinazionali e di paesi emergenti come la Cina e l’India troverebbe terreno per una sua manifestazione progressiva: la “rivoluzione passiva” che sta lentamente portando alla costituzione di una entità sovranazionale europea non implicherebbe infatti necessariamente l’impoverimento materiale ed industriale dei paesi “periferici”.
Per una certa miopia politica, convincimenti di teoria economica, interessi materiali tedeschi e della finanza europea desiderosa di evitare un deprezzamento dell’euro, quanto finora deciso e prospettato nei recenti vertici europei non va però in questa direzione, e non sembra così poter annullare il timore che gli interventi sia diretti della BCE, sia indiretti tramite veicoli esterni come lo European Stability Mechanism, possano risultare insufficienti a stabilizzare la situazione finanziaria dell’area dell’euro, data tra l’altro la mole di titoli pubblici e privati in scadenza nei prossimi anni nei principali paesi industrializzati, e data la possibilità di un ulteriore peggioramento delle condizioni macroeconomiche in Europa a seguito degli effetti negativi sui tassi di crescita del prodotto interno lordo dei paesi membri delle misure fiscali decise nei recenti vertici europei.
Al di là della decisione, insufficiente in termini quantitativi, di emettere titoli europei per progetti di investimento specifici, quanto deciso a livello europeo si riduce infatti soprattutto in un più stretto controllo dei conti dei singoli Stati da parte della Commissione europea e della stessa Banca Centrale Europea al fine di garantire bilanci pubblici tendenzialmente in pareggio e riduzioni nel tempo dei debiti pubblici rispetto al prodotto interno lordo, senza alcuna contropartita di una vera e propria politica di bilancio europea.
Il trattato di Lisbona: come uscire dalla moneta unica
In effetti, riprendendo le indicazioni del Trattato di Lisbona, per rilanciare la crescita economica si considerano a livello europeo unicamente politiche “strutturali” di aumento dei tassi di partecipazione, di liberalizzazione dei mercati (dei beni e del lavoro) e di privatizzazione nei settori dei servizi. L’idea però che queste politiche possano favorire una ripresa dell’accumulazione di capitale si basa più sul convincimento della validità di una particolare teoria economica, di ciò che Keynes chiamava il Treasury view e che domina di fatto le decisioni europee e la politica monetaria europea, che su una effettiva analisi dei loro possibili effetti sulla domanda aggregata e dunque sulla crescita economica.
Sia la probabile ulteriore redistribuzione di reddito a favore dei ceti sociali più abbienti che quelle politiche di privatizzazione e liberalizzazione in gran parte probabilmente determineranno (e che ne spiegano in fondo l’origine), sia gli effetti depressivi di crescenti avanzi primari nel tempo nei singoli Stati non compensati da interventi di spesa a livello europeo, non potranno infatti che determinare una spirale deflattiva che, come scritto nello European Economic Forecast dell’autunno scorso, potrà persino “minare la sostenibilità del debito pubblico nonostante l’annuncio di un nuovo pacchetto di misure fiscali di aggiustamento”.
Inoltre, non solo non è certo che quelle politiche siano in grado di riequilibrare i deficit commerciali dei paesi “periferici” attraverso un aumento della loro competitività di prezzo. Ma se anche avessero successo, i costi di questi aggiustamenti in termini di perdita di reddito e peggioramento degli standard di vita nei paesi “periferici” potrebbero essere enormi, a meno che il peso dell’aggiustamento non sia condiviso dai paesi in surplus attraverso loro politiche di espansione della domanda aggregata. L’avvitamento in scenari di tipo greco non è dunque remoto, e potrebbe portare a costi sociali elevatissimi per la “periferia” europea.
In questo quadro non può allora escludersi che uno o più paesi possano essere costretti ad uscire dall’Unione monetaria europea, e che, se il paese che si trovasse ad uscire fosse l’Italia (da subito, o dopo l’uscita di altri), molto probabilmente l’intera unione monetaria finisca per dissolversi. Se ciò si verificasse, sarebbe auspicabile, come scritto da Munchau, una qualche forma concordata di uscita dall’euro, o, nel caso peggiore, una qualche forma concordata di rottura dell’euro, ma tale soluzione concordata risulterebbe di difficile realizzazione, dato lo scontro tra creditori e debitori dei diversi paesi che la fine dell’euro necessariamente determinerebbe.
Ma nei termini posti da Eichengreen,se un paese decidesse di uscire dall’euro, quali “barriere” economiche, politiche e legali dovrebbe superare, e come potrebbe minimizzarne i costi?
Riguardo alla fattibilità giuridica di una uscita dall’Euro, essa appare possibile, ma implicherebbe probabilmente anche una uscita dall’Unione Europea. Nel Trattato di Lisbona, infatti, l’art. 50 prevede (ma altri articoli affermano che la scelta dell’euro è irrevocabile, per cui il Trattato dovrebbe forse comunque essere emendato) che possa esservi una uscita concordata, oppure, se non concordata, una uscita dopo due anni dalla comunicazione al Consiglio Europeo della volontà di uscire.
Ma in entrambi i casi i tempi di uscita risulterebbero così lunghi che il sistema finanziario del paese che decidesse di uscire ne risulterebbe necessariamente sconvolto (con una corsa alla vendita di titoli e agli sportelli), e dunque quel paese non potrebbe che procedere in tempi più brevi all’emissione di una nuova moneta15 e ad introdurre controlli sui movimenti di capitale e delle persone contro quanto previsto dai Trattati europei.
Si ha così qui la prima condizione necessaria da rispettare affinché i costi di una uscita dall’euro risultino minimizzati, ed al tempo stesso l’ostacolo più rilevante da un punto di vista politico ad una decisione del genere - ovvero i tempi democratici di tale decisione. Essa dovrebbe infatti essere la più rapida possibile, ed essere presa nel modo più segreto possibile, richiamandosi ad un interesse generale.
Ma se questi sono gli ostacoli politici e legali da superare, vi sarebbero poi gli ostacoli ed i problemi di natura economica da affrontare – certo più rilevanti dei precedenti. Alcune misure che potrebbero ridurre gli effetti negativi di una uscita dall’euro ci vengono suggerite da alcuni casi storici - quali la crisi finanziaria argentina, il dissolvimento dell’Urss, la divisione della Cecoslovacchia, e più indietro nel tempo l’esempio dell’introduzione del Reichsmark nel 1923/24 e quello della fine della Unione monetaria latina. Si tratta però di casi che ci danno solo dei suggerimenti sul da farsi, perché il grado di integrazione finanziaria nel caso dell’euro è molto maggiore - e dunque gli effetti macroeconomici di una uscita di un paese dall’euro molto più dirompenti - che in quei casi. Inoltre, gli effetti ed i problemi da affrontare sarebbero diversi a seconda del paese che decidesse di uscire.
Il caso della Grecia
Ad esempio, se si trattasse della Grecia, essa si troverebbe ora gran parte del proprio debito pubblico non ridenominabile nella nuova valuta perché non più emesso sotto la propria legislazione nazionale, ed inoltre tale evento verrebbe classificato come un default con riferimento ai credit default swap emessi su quel debito. Lo Stato greco non potrebbe così che dichiarare fallimento, e troverebbe negli anni a seguire difficoltà enormi a finanziare con emissioni di titoli i propri disavanzi pubblici.
Se l’Italia uscisse dall’Euro
Se ad uscire fosse invece l’Italia, queste due circostanze in gran parte non si verificherebbero, ma data l’entità del suo debito ridenominato in lire l’effetto del probabile deprezzamento della nuova valuta sul valore di questi titoli in possesso di investitori esteri non potrebbe che avere, come si dirà, effetti ricchezza rilevanti, e per questa via probabilmente pesanti ripercussioni sui livelli di attività.
Le esperienze di altre crisi finanziarie e di passaggio ad una nuova valuta ci permettono comunque di individuare una serie di provvedimenti che dovrebbero essere presi per minimizzare i costi di una uscita dall’euro. Si tratta di provvedimenti che in sé non sarebbero da considerarsi, diciamo, sconvolgenti, se non fosse per quei processi di liberalizzazione del mercato del credito e dei movimenti di capitale che si sono verificati negli ultimi decenni - e che hanno poi amplificato gli effetti della crisi economica che sta ora colpendo i principali paesi industrializzati.
I provvedimenti per minimizzare i costi di una uscita dall’euro
Questi provvedimenti – volti soprattutto ad evitare possibili situazioni di scarsità di liquidità, fallimenti bancari e difficoltà per i debitori interni - possono essere così elencati:
- il governo decreta che il pagamento delle tasse e le transazioni in tutti gli esercizi commerciali avvengano nella nuova valuta, e paga salari, stipendi, ed imprese nella nuova valuta;
- nell’attesa di stampare moneta nella nuova valuta, il governo permette l’uso dell’euro19 per un periodo limitato di tempo stampando però su tutti i biglietti messi in circolazione dal sistema bancario il nome della nuova valuta per indicare che il suo valore facciale è quello della nuova valuta. Per minimizzare i rischi di scarsità di liquidità, prima ancora della stampa definitiva della nuova valuta con tutti gli accorgimenti antifrode richiesti, il governo decide anche di stampare ed immettere nel sistema economico un numero limitato di biglietti denominati in euro-lire (o euro-dracme, se si trattasse della Grecia), concedendo poi, nel momento in cui sarà pronta la valuta stampata con gli accorgimenti antifrode, un periodo definito di tempo per la conversione delle diverse valute in circolazione nella nuova valuta20. Nello stesso arco di tempo si risolvono i problemi logistici derivanti da macchine per biglietti, posteggi etc. funzionanti ancora in euro;
- tutte le riserve del sistema bancario nazionale presso la Banca centrale vengono congelate e ridenominate nella nuova valuta con un cambio di 1 a 1.21 Vengono al tempo stesso convertiti allo stesso tasso di cambio tutti i prestiti concessi dalla Banca Centrale Europea al sistema bancario sotto l’azione ad esempio dell’Emergency Liquidity Assistance, e vengono convertiti nella nuova valuta tutti i depositi in euro dei residenti del paese presso banche nazionali. I depositi di non residenti rimangono invece denominati in euro, considerata ora una valuta straniera, ma si bloccano per un certo periodo tutti i trasferimenti di attività dei residenti nazionali in loro nuovi conti denominati in euro o in conti di non residenti;
- tutti i debiti tra residenti del paese vengono ridenominati nella nuova valuta, e per legge si fissa che tutti gli interessi, oneri, ipoteche sui debiti esistenti siano pagati nella nuova valuta al tasso di cambio con l’euro di 1 a 1 del momento di ridenominazione del debito;
- per evitare ondate di panico, corse agli sportelli ed una svalutazione troppo accentuata della nuova valuta, tutti i conti di risparmio presso le banche nazionali vengono temporaneamente congelati, e gli sportelli aperti per periodi limitati di tempo, mentre una parte consistente del sistema bancario nazionale a rischio di fallimento viene nazionalizzato;
- il capitale di proprietà della Banca Centrale nazionale presso la Banca Centrale europea e le riserve sotto qualsiasi forma (oro, valute estere etc.) depositate presso la BCE vengono ritirati o ‘comprati’ dalle altre Banche centrali a saldo23 di qualsiasi debito accumulato (ad esempio attraverso il sistema Target2) dalla Banca Centrale nazionale verso le altre Banche centrali che formano il Sistema delle Banche centrali europee. Il rimanente debito denominato in euro dovrà essere ricontrattato, e saldato in varie forme, ad esempio attraverso la cessione di titoli pubblici denominati nella nuova valuta;
- si introducono controlli sui movimenti di capitale per evitare perdite notevoli nel valore della moneta. Tali restrizioni potranno essere favorite dalla nazionalizzazione del sistema bancario e seguire alcune recenti indicazioni del Fondo monetario internazionale al riguardo o l’esempio di paesi come il Brasile che hanno già introdotto tali controlli. Inoltre, per evitare il collocamento all’estero dei guadagni ottenuti dalle esportazioni, si prevede che esse siano pagate all’interno presso il sistema bancario nazionale;
- si riforma lo statuto della Banca Centrale nazionale, permettendo ad essa l’acquisto di titoli statali sui mercati primari e anche il finanziamento diretto dello Stato, dato il rischio di una crescente difficoltà di finanziare il debito pubblico tramite il ricorso ai mercati internazionali.
Rimane a questo punto da chiedersi quali vantaggi potrebbero ricavarsi da una uscita dall’euro e quali costi invece ne deriverebbero. Gli effetti di una possibile uscita dall’euro sarebbero infatti certo pesanti, ma potrebbero non essere così catastrofici come descritto di solito se i provvedimenti sopra detti riuscissero a limitare i problemi di liquidità e di fallimenti a catena registratisi in altre circostanze, ad esempio nel caso della crisi finanziaria in Argentina.
I vantaggi di una uscita dall’euro sarebbero sostanzialmente due. Il primo deriverebbe dal recupero della propria sovranità monetaria (controllo dei tassi ed emissione della moneta), con la possibilità di coordinamento delle politiche fiscali e monetarie in senso espansivo a differenza di quanto si ha ora con l’attuale assetto istituzionale europeo. Il secondo deriverebbe dalla possibilità di agire, tramite il deprezzamento del cambio, per un recupero di competitività e riduzione dei disavanzi commerciali.
Nel caso dell’Italia, per minimizzare i costi dell’uscita dall’euro, tale deprezzamento non dovrebbe però essere elevato, e risultare possibilmente minore di quello nel 1992 di circa il 40 per cento della lira rispetto al marco tedesco. Le ragioni di ciò sono due. Da un lato il deficit commerciale con l’estero non è per l’Italia così grande da richiedere un forte deprezzamento del cambio, e potrebbe piuttosto essere affrontato con appropriate politiche di sostituzione delle importazioni ed industriali (essendo in gran parte determinato da disavanzi nei comparti agro-alimentare e dell’energia). Così, se nell’ultimo decennio la dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto appare certo essere stata in Germania inferiore che in Italia, le stime dell’Ocse indicano (a seconda dei tassi di cambio reali considerati) una “sottovalutazione” dell’euro tedesco rispetto all’euro italiano in media non superiore al 20-25 per cento.
Dall’altro, la necessità di limitare il deprezzamento del cambio deriverebbe in primo luogo dal rischio di una inflazione importata troppo elevata, che determini o una rincorsa prezzi-salari o, in sua assenza, una forte caduta dei salari reali, difficilmente sostenibile dato l’andamento già sfavorevole ai lavoratori della distribuzione del reddito negli ultimi decenni. Tale necessità deriverebbe poi dall’obiettivo di non alimentare aspettative di deprezzamento del cambio che potrebbero avere effetti negativi sui tassi di interesse e dunque sul costo del servizio del debito pubblico, e di limitare il più possibile le perdite per gli investitori esteri del passaggio alla nuova valuta – perdite che non potrebbero che portare ad azioni legali contro attività di residenti italiani all’estero, al contingentamento delle esportazioni italiane, ed a fughe di capitali dall’Italia, almeno non appena i controlli sui movimenti di capitale fossero ridotti o si trovasse il modo di aggirarli.
Se quel forte deprezzamento fosse evitato con opportune misure monetarie e controlli dei movimenti di capitale, l’uscita dall’euro potrebbe però risultare uno scenario migliore (almeno nel medio periodo) rispetto ad anni di continue politiche fiscali recessive e di ristagno economico. Se infatti, come scritto di recente dalla Confindustria, le perdite derivanti dalla crisi economica sono già ora paragonabili a quelle di un evento bellico, esse nei prossimi anni potrebbero trasformarsi in una vera e propria catastrofe sociale in assenza di modifiche sostanziali negli assetti istituzionali europei.
L’Italia si trova così tra Scilla e Cariddi, e non si può che sperare che le classi dirigenti italiane ed europee siano così lungimiranti da scegliere le misure più idonee ad evitare un impoverimento generalizzato delle popolazioni dei paesi “periferici”, e che i lavoratori europei e le loro organizzazioni abbiano la consapevolezza e forza per concorrere ad imporre quelle misure, superando le loro attuali divisioni.
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