Licenziamento: il mancato reintegro è legittimo. Ecco quando secondo una sentenza UE

Teresa Maddonni

18/03/2021

22/09/2021 - 15:01

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In caso di licenziamento è legittimo il mancato reintegro del lavoratore per il quale si applica il Jobs Act anche quando c’è la trasformazione del contratto da determinato a indeterminato. La Corte di Giustizia UE si è pronunciata in merito a una sentenza del Tribunale di Milano.

Licenziamento: il mancato reintegro è legittimo. Ecco quando secondo una sentenza UE

In caso di licenziamento del lavoratore dipendente il mancato reintegro è legittimo e a stabilire quando è una sentenza della Corte di Giustizia europea. Il riferimento è chiaramente al Jobs Act e quindi secondo la Corte di Giustizia UE è legittimo il mancato reintegro in caso di licenziamento del lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015.

La Corte di Giustizia europea si è pronunciata a seguito di una sentenza del tribunale di Milano in merito a un licenziamento collettivo da parte di un’impresa italiana nel 2017. La sentenza di Lussemburgo ha stabilito che per il licenziamento illegittimo avvenuto dopo l’entrata in vigore del Jobs Act il mancato reintegro è legittimo e non discriminatorio, anche in caso di trasformazione di un contratto di lavoro da tempo determinato a indeterminato successivo al 7 marzo 2015 come nel caso preso in esame.

Vediamo allora nel dettaglio quando secondo la sentenza UE in caso di licenziamento il mancato reintegro è legittimo.

Licenziamento, legittimo il mancato reintegro: il caso

Prima di capire quando nel dettaglio il mancato reintegro in caso di licenziamento è di fatto legittimo per la corte UE, vediamo qual è il caso arrivato alla corte di Lussemburgo e che parte da una pronuncia del Tribunale di Milano.

Un’azienda italiana nel 2017 aveva avviato una procedura di licenziamento collettivo per 350 dipendenti e in merito lo stesso Tribunale si era pronunciato per il reintegro dei lavoratori evidenziando l’illegittimità del licenziamento.

Di questi solo un lavoratore tuttavia non era stato reintegrato dal momento che il suo contratto era stato trasformato da tempo determinato a indeterminato dopo il 7 marzo 2015, applicando di fatto il decreto legislativo n.23/2015 il Jobs Act.

Si tratta di fatto di un doppio regime sanzionatorio perché da una parte si applica l’articolo 18 per coloro che risultavano assunti prima del 7 marzo 2015 e dall’altra invece, per il singolo lavoratore, si applica il Jobs Act per una stessa fattispecie ovvero il licenziamento illegittimo.

Il Tribunale di Milano si è così rivolto alla Corte di Giustizia europea che si è pronunciata in merito.

Licenziamento, legittimo il mancato reintegro: la sentenza

Veniamo ora alla sentenza della Corte UE che si è pronunciata in merito alla vicenda italiana. La Corte ha ritenuto di fatto corretta la sentenza del Tribunale di Milano considerando legittimo il mancato reintegro del lavoratore dal momento che il Jobs Act assimila a una nuova assunzione anche la trasformazione da contratto a tempo determinato a indeterminato che per il lavoratore in questione era avvenuta dopo il 7 marzo 2015.

Una norma secondo la Corte volta a favorire l’occupazione stabile (la trasformazione del contratto) in luogo di una minore tutela, ma che ha diritto a un’indennità.

Per la Corte non vi sarebbe discriminazione tra i lavoratori assunti prima e dopo il Jobs Act perché considera legittima l’applicazione di norme che hanno come obiettivo quello di favorire l’occupazione, scelta questa che compete a ciascuno Stato membro.

La Corte ha rilevato infine quanto segue:

“Una normativa nazionale che prevede l’applicazione concorrente, nell’ambito di una stessa e unica procedura di licenziamento collettivo, di due diversi regimi di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo effettuato in violazione dei criteri destinati a determinare i lavoratori che saranno sottoposti a tale procedura non rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, e non può, pertanto, essere esaminata alla luce dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, in particolare, dei suoi articoli 20 e 30.”

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