Le conseguenze involontarie del Quantitative Easing

Michela Del Zoppo

26 Agosto 2017 - 18:00

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Il programma di QE sta cambiando il profilo dell’economia reale. Ma quali sono le conseguenze a lungo termine su consumatori e risparmiatori?

Le conseguenze involontarie del Quantitative Easing

Il Quantitative Easing, che ha visto le maggiori banche centrali comprare bond governativi e quadruplicare il loro bilancio dal 2008 per un totale di 15 trilioni di dollari, ha aumentato in generale i prezzi. E il punto era proprio questo: scongiurare una severa regressione economica e salvare un sistema finanziario ad un passo dal baratro. Si è pensato poco, però, alle conseguenze a lungo termine di queste azioni.

Dal 2008 al 2015, il valore nominale delle azioni mondiali sui beni investibili è aumentato di circa il 40%, da 350 fino ad oltre 500 trilioni di dollari. Ma i beni reali dietro questi numeri sono cambiati solo leggermente, riflettendo l’effettiva natura inflazionistica del QE. Gli effetti dell’inflazione dei beni sono tanto profondi quanto quelli della meglio nota inflazione al consumo.

L’inflazione dei prezzi al consumo corrode i risparmi e il valore dei redditi fissi al salire dei prezzi. Al di là del peso sui consumatori, i segnali dei prezzi sull’economia diventano confusi. Le società possono inconsapevolmente vendere in perdita, mentre i lavoratori devono ripetutamente chiedere aumenti salariali solo per stare al passo con i prezzi. Coloro che ne sono davvero svantaggiati risultano essere le persone con dei risparmi, che vedono il loro valore in termini di potere d’acquisto notevolmente diminuito.

John Maynard Keynes ha detto che l’inflazione è un modo per i governi di “confiscare, segretamente e senza essere visti, una parte importante della ricchezza dei loro cittadini”.

È sicuramente vero che l’inflazione provoca molta tensione a livello sociale:

“Se da una parte il processo impoverisce molti, dall’altra ne arricchisce alcuni. Lo spettacolo di questo arbitrario riodinamento della ricchezza genera, oltre che insicurezza, sfiducia nell’equità dell’attuale distribuzione della ricchezza.”

L’inflazione dei beni, a quanto pare, è straordinariamente simile. Per prima cosa, impedisce la distruzione creativa fissando un tasso d’interesse reale negativo a lungo termine. Questo permette alle società che non riescono più generare abbastanza entrate di avere un ritorno positivo sul capitale per continuare al solito invece di essere ristrutturate. Perciò il ben noto fenomeno delle “compagnie zombie” è una conseguenza dell’inflazione dei prezzi dei beni. La stessa cosa vale per l’irragionevole aumento dei prezzi osservato per i beni immobili, che comporta dei rischi sul credito per il futuro.

Secondo poi, l’inflazione genera vincitori e vinti artificiali. I vinti esistono in misura maggiore tra la classe media che, nell’intento di mantenere inalterati i propri livelli di consumo futuri, dovrà aumentare i suoi risparmi. Infatti, i risparmi dei lavoratori su stipendi stagnanti generano meno reddito futuro perché i beni su cui si può investire sono ora molto più dispendiosi. E più invecchia la popolazione, più pronunciati si fanno i suoi effetti. La Germania, per esempio, ha una contrazione di quasi il 4% del suo PIL in spese per i consumi dal 2009 al 2016.

I vincitori invece sono i ricchi, persone con risparmi già dall’inizio del processo, che vedono il valore nominale dei loro beni balzare alle stelle. Ma, così come con l’inflazione al consumo, il vero vincitore è lo Stato che ora possiede, attraverso la sua autorità monetaria, una larga parte del suo stesso debito, pagando di fatto gli interessi a se stesso e in misura molto minore. Tutto questo ci mostra come l’inflazione dei beni sia una tassa monetaria.

La somiglianza più impressionante tra l’inflazione dei prezzi di consumo e quella dei beni è il suo potenziale di scatenare un caos sociale. Negli anni ’70 i lavoratori ricorsero agli scioperi per negoziare un aumento salariale in linea con l’aumento dei prezzi. Oggi, l’indebolita classe media i cui stipendi sono scesi per decenni, sta covando una rabbia crescente verso i membri più ricchi della società.

La percezione è che molte delle ricchezze dei più facoltosi siano disoneste, non il risultato di un vero arricchimento economico, e si ricerca la giustizia sociale attraverso movimenti populisti al di fuori del classico dibattito destra-sinistra. Il QE ha certamente contribuito, almeno in parte, ai voti di protesta che sono stati osservati nell’emisfero occidentale.

Le banche centrali ora devono sopportare una grande responsabilità. Se ignorano l’impatto politico delle misure che prendono, renderanno ancora più spinosa la situazione politica. Se, dall’altra parte, i guadagni dello stato dal QE fossero canalizzati verso una reale creazione (e distribuzione) di ricchezza, si avrebbe salva la situazione.

La cosa è assolutamente possibile. Piuttosto che dibattere su quanto velocemente far finire il QE, gli asset della banca centrale generati da questo programma potrebbero essere messi in un grande fondo per l’educazione e le infrastrutture. L’interesse generato da questi beni potrebbe finanziare investimenti pubblici reali, come la ricerca, l’educazione e la riqualificazione professionale. Se i profitti del QE fossero investiti in politiche di sviluppo, il guadagno aiuterebbe il sistema pensionistico e l’inflazione indotta dai governi potrebbe essere un investimento, non semplicemente una tassa.

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