La gig economy è qualcosa di molto diverso da quello che vanno raccontando le grandi aziende USA. Dietro la flessibilità dei contratti nel settore digital si cela una fortissima precarizzazione del lavoro.
La gig economy, avvalorata da importanti corporation della Silicon Valley, altro non è che un forma di subdola precarizzazione del lavoro, benché il settore digital d’oltreoceano l’abbia spesso spacciata come l’occasione imperdibile per diventare “imprenditori” di se stessi. Lo ha detto il New York Times, tornato recentemente sulla questione.
Col termine gig economy si rimanda ad un particolare modus economico on demand, ovvero “si lavora quando ce n’è bisogno” (e mai in maniera stabile e continuativa). L’azienda avvisa in tempo reale il lavoratore attraverso un’apposita piattaforma. Il termine “gig”, che in inglese significa lavoretto, rimanda infatti ad una prestazione occasionale.
La retribuzione è commisurata alle ore effettive di lavoro e il lavoratore non è mai un impiegato dell’azienda, quanto un collaboratore che non gode di alcun beneficio previdenziale.
Come ha sottolineato il New York Times, i propositi iniziali della gig economy sono stati in breve tempo traditi: pensata per “studenti e genitori” desiderosi di impiegare il tempo libero guadagnando qualcosa, la gig economy è presto diventata il principale metodo con il quale diversi colossi della Silicon Valley disciplinano i rapporti di lavoro con i propri collaboratori.
In assenza di un quadro giuridico ben definito (la legge americana dice poco o nulla in merito), le grandi aziende della Silicon Valley impiegate nel settore digital sfruttano i vantaggi derivanti dalle nuove tecnologie per erodere diritti ai lavoratori, i quali non sanno a quali istituzioni appellarsi.
Il risultato? Almeno negli USA sta strutturandosi una massa di precari che, in assenza di alternative migliori, ha fatto dei (pochi) proventi derivanti dalla gig economy l’unica forma di sussistenza.
Gig economy: la frontiera della nuova precarizzazione
La neo-liberalizzazione dell’economia ha incastonato l’uomo entro i confini di un meccanismo perverso generalmente definito come lavoro flessibile, i cui benefici sulla qualità (presunta) dell’offerta sono decantati a squarciagola da governi e colossi del business.
La gig economy è senz’altro parte integrante di questo meccanismo. Il New York Times ricorda come colossi del calibro di Uber, Lyft, Instacart e Handy sfruttino i lavoratori riconoscendo loro retribuzioni il cui valore è irrisorio, ai limiti della decenza in un mondo che da decenni si è immolato all’opulenza. In più, le forme contrattuali in voga nel mondo utopico della gig economy non sono mai stabili; in altre parole, il lavoratore non è mai un impiegato ma un semplice collaboratore a cui non è riconosciuto alcun beneficio previdenziale e materiale.
Da un punto di vista sociologico, i lavoratori della gig economy appartengono, almeno negli USA, a minoranze di vario tipo: secondo il New York Times, il settore impiega principalmente ispanici e afroamericani. Ciò dimostra che la gig economy non è affatto un diversivo retribuito per studenti e casalinghe, ma l’unica prospettiva lavorativa per determinate fasce sociali, specie quelle meno abbienti.
Si pensi solo al fatto che a partire dal 2009 Uber, forte dell’assenza di un regolatore che disciplini attraverso una contrattazione collettiva la posizione economica dei lavoratori, ha messo su strada almeno 700 mila collaboratori precari, il cui stipendio è lontanissimo dal “tetto minimo” previsto per altre mansioni fuori dal mondo della gig economy.
Gig economy: la flessibilità è vantaggiosa?
Per le aziende della Silicon Valley la flessibilità insita nella gig economy dovrebbe rappresentare un valore incommensurabile per i lavoratori. Questo perché la libertà di cui godono i lavoratori che sottostanno a questa peculiare dinamica economica consente loro margini discrezionali più ampi.
Dietro questa pelosa argomentazione si cela il reale intento delle aziende che operano secondo le logiche della gig economy: spacciare per “flessibilità” quella che in realtà è la deliberata contrazione dei salari (meno costi, più profitti).
Negli USA, come ricorda il New York Times, la speranza è che il malcontento che la gig economy naturalmente ha generato sfoci presto in una sindacalizzazione del dissidio. Ciò permetterà ai lavoratori precari delle varie società di far sentire la propria voce senza inutili, perché singoli, ammutinamenti.
Lo scorso anno in Italia i rider di Foodora hanno protestato (e scioperato) contro le negligenze della società che non passa loro nemmeno l’equivalente per un cambio gomma. Non che la protesta abbia cambiato chissaché, ma è senz’altro un punto di partenza.
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