La Commissione sta discutendo un piano di protezione sociale per i lavoratori della gig economy. Obiettivo? garantire a tutti standard minimi di protezione. Ma può funzionare anche in sistema rigido come l’Eurozona?
Garantire ai precari della gig economy l’accesso ai più elementari standard di protezione sociale, ovunque essi operino nell’Eurozona. Sembra questa l’ultima trovata della Commissione UE, che proprio in questi giorni ha dato il via ad un ciclo di consultazioni sulla regolamentazione del lavoro c.d “on demand”, come riporta il Financial Times.
La gig economy - letteralmente “lavoretto” - consente a chiunque ne abbia necessità di impiegare il proprio tempo libero in lavori “a chiamata”, vale a dire quando ce n’è bisogno. La società avverte il “fattorino” tramite un’app; quest’ultimo, dipendentemente dal mezzo con il quale lavora (dall’auto di Uber alla bicicletta di Foodora), parte alla volta di una consegna a domicilio o di un passaggio all’aeroporto. La quintessenza del precariato. Il fattorino non è un dipendente, quanto un collaboratore esterno dell’azienda. Protezione sociale? Nemmeno l’ombra.
Negli USA è stato avviato un dibattito il cui obiettivo è quello di sindacalizzare il dissenso e portare all’attenzione del legislatore la piaga dei contratti senza protezione sociale presenti nell’universo multiforme della gig economy. La Commissione UE spera di fare una cosa analoga: garantire che i lavoratori della gig economy rientrino nei parametri di protezione sociale, dato che quella dei “fattorini on-line” è molto più di un semplice fenomeno passeggero connesso alla crisi economica.
Commissione UE: garantire protezione ai lavoratori della gig economy
Rifarsi una verginità dopo lo sfacelo sociale promosso in Grecia in concerto con la BCE e il FMI negli ultimi anni. Sembra questo l’obiettivo preminente della Commissione UE, che in queste settimane si è detta intenzionata a varare un serio dibattito sul riconoscimento, in tutta l’area del mercato unico, degli standard minimi di protezione sociale e sanitaria ai lavoratori impiegati nei settori “on demand” della gig economy.
La proposta si inserisce nel più ampio dibattito sull’istituzione di un “pilastro europeo dei diritti sociali”, maturato lo scorso anno in tandem col Parlamento EU è ridiscusso lo scorso febbraio, quando in molti - ministri del welfare (tra cui Giuliano Poletti) e vari parlamentari UE - si dissero disposti ad armonizzare sul piano europeo i livelli di protezione e accesso al mondo del lavoro.
Nel caso di specie, la Commissione riconosce che
“la rivoluzione digitale e in particolare l’economia collaborativa creano opportunità in termini di salario, creazione di posti di lavoro e crescita aziendale anche per coloro i quali partono da posizioni di svantaggio con difficoltà di accesso al lavoro tradizionale. [Tuttavia ndr] la flessibilità connessa ai nuovi accordi di lavoro crea un gap nell’accesso alla protezione sociale”.
Ciò che rende la gig economy oggetto di discussione istituzionale è che negli ultimi anni i giovani senza lavoro sparsi in tutta Europa hanno in molti casi optato per le offerte della gig economy come unica forma di entrata economica non già per scelta, quanto in assenza di proposte di lavoro migliori. Naturalmente, le grandi società che usufruiscono dei benefici di questo business hanno abusato dei vantaggi, in termini di risparmio sul costo del lavoro, che le formule contrattuali connesse alla gig economy riconoscono loro.
In altre parole, se da un lato il numero di lavoratori impiegati nei settori della gig economy sta aumentando in tutta Europa (così come i profitti delle società che li impiegano), dall’altro le istituzioni stentano a riconoscere nel fenomeno l’avvento di una nuova forma di lavoro - che come tale è bene disciplinare in modo da garantire condizioni di protezione quanto meno affini a quelle del lavoro dipendente.
Allo stato attuale delle cose questi lavoratori non godono, in pratica, d’alcun diritto, specie se la loro condizione è raffrontata a quella dei lavoratori dipendenti a tempo pieno.
Protezione sociale e moneta unica: un’equazione impossibile?
Nel 1983 François Mitterrand, da poco varcata la soglia dell’Eliseo, dichiarò:
"Sono combattuto tra due ambizioni: quella della costruzione dell’Europa e quella della giustizia sociale".
Il che sottende l’impossibilità di perseguire entrambe le cose. Almeno allo stesso tempo. La costruzione dell’euro, quintessenza dell’integrazione europea, avvalora il dilemma di Mitterrand.
Privandosi della gestione del cambio, i Paesi che hanno aderito all’eurozona hanno implicitamente trasferito al mercato del lavoro il ruolo di cuscinetto che prima della convergenza apparteneva alla svalutazione nominale della moneta.
In altre parole, il lavoro deve oggi fare i conti con una competitività che, almeno per l’Eurozona, non si ottiene più attraverso i prezzi ma per mezzo della flessibilità del fattore stesso. Flessibilità, va detto, è sinonimo di precaria mobilità. In questo senso, non sorprende che nell’Eurozona il lavoro flessibile (a cui si ascrive il fenomeno della gig economy) stia lentamente sostituendo il lavoro dipendente, generalmente ben protetto e retribuito.
Le riforme del mercato del lavoro perpetrate dapprima in Germania col modello Hartz e successivamente in Italia (fino al Jobs Act) miravano essenzialmente a istituzionalizzare la moderazione salariale.
Non vi è dubbio che quelli lamentati dalla Commissione UE siano problemi reali e che una soluzione al “gap” di protezione sociale generato dalla gig economy vada trovata nell’immediatezza. L’innovazione e la globalizzazione hanno stravolto il modo stesso di concepire il lavoro - un problema/opportunità che riguarda anche gli USA.
Tuttavia, rischia di non avere senso alcuno armonizzare le politiche sociali a livello europeo quando è lo strumento europeo per eccellenza, l’euro, che impone ai Paesi di scaricare l’onere dell’aggiustamento sul lavoro (ed è quello che le società della gig economy fanno: per essere competitive "non proteggono" i lavoratori. Salari bassi, meno costi, meno protezione = prezzo finale del prodotto più competitivo).
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